E a proposito del titolo del capitolo “Borghesi e proletari”, così precisava Engels in una specifica nota all’edizione inglese del Manifesto del 1888:

«Per borghesia si intende la classe dei capitalisti moderni, che sono proprietari dei mezzi della produzione sociale e impiegano lavoro salariato. Per proletariato si intende la classe degli operai salariati moderni che, non possedendo nessun mezzo di produzione, sono costretti a vendere la loro forza-lavoro per vivere».

Come è facile constatare, nella prima parte di questi brani Marx ed Engels descrivono, seppure in poche frasi, l’articolazione complicata delle società classiste del passato, elencando varie figure ed usando anche una terminologia multipla (“classi”, “oppressori ed oppressi”, “caste” ecc.) e certamente non equivalente, a dimostrazione della complessità del problema: e per giunta finendo per definire classi addirittura quelle dei maestri d’arte, dei vassalli e dei garzoni. Poi, arrivati alla realtà del capitalismo ottocentesco europeo, i due virano bruscamente verso una secca e indimostrata semplificazione, secondo la quale l’intera società «va sempre più scindendosi in due grandi classi direttamente opposte l’una all’altra, la borghesia e il proletariato». Per la verità, niente di tutto ciò stava avvenendo: né in quell’Inghilterra considerata la culla del capitalismo più sviluppato, né in Germania che, pur collocata tra le quattro o cinque realtà mondiali ove più avanzava il capitalismo, era per ammissione esplicita di Engels «dominata da commercianti e bottegai»; né nei restanti paesi europei e ancor meno in quelli degli altri continenti.
Anche in Inghilterra vi era una presenza massiccia di altre classi e ceti, contadini, commercianti, negozianti, artigiani, “maestri d’arte e garzoni”. Ed anche nel novero di coloro che venivano definiti proletari in quanto “possessori” (brutto termine, ma usato in tal senso da Marx) di sola prole, gli operai di fabbrica erano una minoranza, immersi in un vasto mondo di braccianti, salariati dei lavori servili e di cura, garzoni di botteghe, lavoratori dell’artigianato e del commercio, della ristorazione e delle attività portuali e marittime, impiegati statali, della scuola, della sanità, dei trasporti e così via. Dunque, non solo le due grandi classi in cui si sarebbe scissa la società, non erano neanche lontanamente la maggioranza della popolazione, ma pure all’interno di quelle così seccamente disegnate non esisteva affatto omogeneità: né tra i capitalisti, ove il piccolo imprenditore che, con altrettanto piccoli mezzi di produzione, aveva alle dipendenze poche unità di salariati – esso sì, definibile piccola borghesia – non era davvero sullo stesso piano del possessore di grandi fabbriche, miniere, navi o altre strutture di trasporti, commercio e distribuzione; né tra i proletari, teoricamente ridotti tutti a operai delle grandi imprese, malgrado vistose differenziazioni che lo stesso Marx, come ho dettagliatamente mostrato nel mio libro Benicomunismo, avrebbe poi riconosciuto a malincuore nei suoi ultimi anni di produzione teorica e politica.
Mi pare lecito e doveroso domandarsi: come è possibile che un vero pilastro delle teorie di Marx ed Engels come la definizione di cosa sia una classe, non solo non sia stato edificato compiutamente in almeno mezzo secolo di attività teorica e politica ma che neanche in extremis sia apparsa una trattazione organica che tentasse di colmare tale sorprendente lacuna? E in aggiunta: perché, in contrasto con i dati in loro possesso, Marx ed Engels dettero vita ad una descrizione delle classi polarizzata su due grandi componenti, considerando tutte le altre come morenti, ininfluenti o in via di estinzione, mentre nessun elemento reale andava davvero in tale direzione, non in Inghilterra o in Germania, non nel resto d’Europa e tantomeno nel resto del mondo?
Una sorta di redivivo e spietato anti-marxista alla Bakunin ci potrebbe rispondere che una puntuale definizione delle classi avrebbe costretto i comunisti “scientifici” a fare i conti anche con sé stessi, a entrare nel merito del ruolo di altre classi e ceti sociali alle quali apparteneva la stragrande maggioranza del quadro dirigente della socialdemocrazia e del comunismo ottocenteschi: rischiando così di mettere a nudo la contraddittorietà di un progetto politico che, pur proponendosi in teoria di portare al potere la classe operaia, era gestito e condotto da esponenti di certo non proletari, che non solo si ritenevano depositari di una lettura rivoluzionaria della realtà e delle indispensabili trasformazioni sociali ma che soprattutto le ritenevano impossibili da realizzare senza la loro guida. Lasciando sorgere, con tale dis-identificazione, il forte sospetto che, in quanto appartenenti a ceti e classi non dotati di particolare potere o impatto sociale o forza d’urto massificata rispetto al crescente ruolo della classe operaia, intendessero, tramite l’organizzazione politica, farsi scudo di quest’ultima per imporre – come poi di fatto sarebbe accaduto in Urss e nel “socialismo reale” – non già una dittatura dei proletari ma il proprio potere, quello dei partiti e dei leader del comunismo “scientifico” e dei ceti sociali a cui appartenevano, verso la costituzione di quella borghesia di Stato dominante nel Novecento ad Est, e dotata di rilevantissimo potere anche ad Ovest.