Lenin precisò innanzitutto che il rapporto di una classe con i mezzi di produzione è per lo più, ma non necessariamente, sanzionato da leggi e in ogni caso non è da esse determinato: cioè la formalizzazione giuridica del rapporto di classe non è indispensabile perché una forma proprietaria di possesso sostanziale esista di fatto. In secondo luogo, è il rapporto del gruppo con i mezzi di produzione, piuttosto che solo quello del singolo, che va preso in esame. Più precisamente: la sostanza dei rapporti di classe, e in particolare dei rapporti di proprietà e possesso effettivo dei mezzi di produzione, va ricercata nelle relazioni concrete, nelle funzioni materiali esercitate dal gruppo di persone nella struttura organizzata che gestisce e decide sulla produzione e sulla distribuzione di merci e prodotti; nonché nelle differenze tra i ruoli di tali gruppi derivate dalla divisione concreta del lavoro (indipendentemente da ciò che l’ideologia o i formali rapporti giuridici dicono o lasciano credere), che determinano poi anche il modo e le dimensioni dell’appropriazione della ricchezza sociale da parte delle classi dominanti e dei ceti differenziati di cui si compongono, ai danni degli altrettanto vari ceti che compongono le classi subordinate. Ed in terzo luogo, diversamente dalla sottovalutazione marxiana sul ruolo della distribuzione del reddito (Marx aveva insistito sul fatto che non fosse la quantità del reddito o la fonte di esso – cioè l’entità e le modalità della distribuzione della ricchezza – a determinare le classi), qui Lenin, pur a differenza di altri suoi scritti, sottolineò l’importanza, per definire la suddivisione in classi e ceti, anche della «dimensione che ha quella parte di ricchezza sociale di cui dispongono», pur all’interno di collocazioni simili nel meccanismo produttivo.
Davvero cruciale mi sembra la considerazione del fatto che il possesso effettivo del capitale e dei mezzi di produzione – cioè la facoltà di poter decidere secondo i propri interessi e voleri dell’uso dell’uno e degli altri, pur quando e laddove di essi non se ne abbia la proprietà giuridica – può attribuire ai possessori sostanziali ruoli e poteri analoghi, nei processi di produzione e di distribuzione, a quelli di coloro che individualmente ne abbiano la proprietà per legge. Se con questi occhiali – originali rispetto all’impostazione generale marxiana, seppure, come già detto, in un paio di scritti Marx e soprattutto Engels avevano ipotizzato la possibile inessenzialità del singolo capitalista privato, o addirittura la scomparsa di esso – guardiamo ad esempio ai concreti rapporti di produzione nei paesi “socialisti” del Novecento, togliendo il velo ideologico e le fumisterie giuridiche di copertura, è lecito definire classe quell’amplissimo gruppo sociale organizzato nel Partito-Stato, nel Sindacato unico e nella burocrazia statale che ha gestito in quei paesi (e tuttora gestisce in quelli di essi non coinvolti nel crollo dell’Urss) tutta la macchina produttiva, essendone di fatto il possessore reale, potendone disporre a piacimento. Esso ne è stato o ne è proprietario collettivo nel senso più profondo del termine, in quanto, in assenza di pluralismo politico o di luoghi democratici di decisione pubblica sulla produzione e sulla distribuzione dei prodotti e della ricchezza all’interno della società, aveva o ha ancora illimitato potere decisionale sulle finalità, sulla organizzazione e modalità del processo produttivo e sulla distribuzione dei prodotti, sul cosa, come, quanto e dove produrre e sul come assegnare ai vari strati sociali una parte della ricchezza nazionale.
Ma, anche spostandoci ad Ovest (i riferimenti geografici e di punti cardinali che sovente faccio sono ovviamente simbolici) e osservando l’evoluzione del capitalismo privato nel Novecento e nella prima parte del XXI secolo soprattutto nei paesi-guida del sistema, buona parte del possesso e della gestione del Capitale e dei mezzi di produzione più rilevanti appare oramai esercitata in forma collettiva (o, se si preferisce, cooperativistica, vista la divisione del peso per quote sociali tra gli azionisti che cooperano per il successo dell’impresa comune), come nelle Società per azioni e nei Consigli di amministrazione. La proprietà individuale è andata anche qui concentrandosi in gruppi di persone associate; e l’intreccio tra i detentori formali della proprietà (i capitalisti individuali, familiari o azionisti affiliati in forme “cooperative”) e i gestori effettivi di questa proprietà (gli amministratori delegati e affini, che io definisco funzionari del Capitale) non è oramai meno inestricabile di quanto sia stato ad Est tra i membri della borghesia di Stato che ha gestito, o gestisce, il capitale “pubblico”nazionale.
Peraltro, a ben guardare, neanche il presunto ostacolo della mancata formalizzazione giuridica di tale borghesia di Stato e delle sue specifiche forme di possesso è stata davvero tale sul piano concreto, se si pensi che in definitiva la legge nei paesi “socialisti” assegnava tale potere, anche giuridicamente, alle strutture statuali: e che queste ultime erano a loro volta proprietà formalizzata del Partito Unico, coincidente con gli apparati di Stato. Intellettuali, professionisti urbani, ceti “medi” o, usando la terminologia marxiana, “piccola borghesia”, ex-operai (in misura molto limitata), burocrati di vario tipo organizzati nel Partito-Stato potevano dunque essere considerati la classe proprietaria, in quanto possidente e dominante, poiché: a) possedevano i mezzi di produzione mediante la forma collettiva del Partito, che si presentava come una sorta di enorme società per azioni, o holding di gestione del capitalismo statale; la proprietà partitica era anche sanzionata da leggi che, registrando la statalizzazione totale delle attività economiche principali, della produzione e della distribuzione, nonché il possesso dello Stato e del capitale nazionale da parte del Partito, certificavano per proprietà transitiva quest’ultimo come il vero proprietario dei mezzi di produzione principali; b) nell’organizzazione sociale del lavoro avevano una funzione insindacabile e ineliminabile di direzione, decisione, controllo, senza reali possibilità di ricambio (o meglio: non più di quanta ce ne sia in una Società per azioni nel capitalismo privato o “misto”); e al contempo, nessun potere di accedere alle stesse funzioni di gestione dei Piani e delle direttive economiche e sociali avevano la massa dei salariati e dei settori popolari, privati di qualsiasi strumento democratico che consentisse di far divenire la formale proprietà statale effettiva proprietà comunitaria e socializzata, davvero pubblica e collettiva; c) grazie alla collocazione nei meccanismi produttivi e proprietari, godevano di grandi vantaggi nella distribuzione della ricchezza, potendosi appropriare, relativamente indisturbati, di quote del prodotto globale, nonché di privilegi inaccessibili alla grande maggioranza della popolazione.