Un approccio pragmatico e non ideologico alla descrizione di classi e ceti oggi

Dunque, seppure io ritenga – malgrado le critiche rivolte fin qui a Marx ed Engels per l’estrema semplificazione del concetto di classe e della lotta di classe, ridotta ad un conflitto a due tra capitalisti privati e operai/proletari – che il bacino di ricerca e di approfondimento su questi temi cruciali non debba annullare la tesi-base dei due fondatori del comunismo “scientifico” (che, cioè, la radice principale della formazione delle classi, dei ceti e delle stratificazioni sociali risieda nei rapporti di produzione), la ricerca stessa deve andare oltre tali semplificazioni, e accogliere variegati e significativi contributi successivi. E deve dare il giusto peso anche ai rapporti di riproduzione e di distribuzione della ricchezza, che non sono esclusivamente dipendenti da quelli di produzione: il ché ci impone di considerare pure le fonti di reddito e le quantità degli stessi, al fine di evitare la fuorviante semplificazione che riduce il cuore del conflitto di classe ad una resa dei conti tra due fronti compatti, tra produttori di plusvalore (gli operai o i proletari “produttivi”) e i capitalisti privati che si appropriano del plusvalore.
Su questa base strutturale, che resta valida anche nel XXI secolo, bisogna recuperare anche il ruolo di quelle componenti di carattere culturale, antropologico, ideologico e psicologico, definite da Marx ed Engels sovrastrutturali, ma che operano frammentando o riaggregando ceti e strati sociali pur all’interno degli stessi comparti e istinti di classe: l’onnipresenza della politica, dell’ideologia, della cultura (o sub-cultura), della religione, dell’educazione familiare e scolastica, dell’organizzazione partitica e sindacale, dei meccanismi massmediatici della “società dello spettacolo”, nonché di alcune basilari strutture antropologiche e psicologiche su cui mi sono ampiamente soffermato in Benicomunismo. Grave errore dunque sarebbe oggi sottovalutare come questi elementi, cosiddetti sovrastrutturali, in realtà si intreccino inestricabilmente con il conflitto economico strutturale; il ché impedisce di trattarli da sovrappiù superficiale o trascurabile, come sovente è apparso nella produzione teorica comunista che, pur dedicandovi formalmente attenzione, finiva poi per renderli quasi irrilevanti al momento di definire le prospettive politiche e i programmi, in particolare lasciando in ombra tutto quel che riguarda gli effetti della “sovrastruttura” sulle divisioni e differenziazioni all’interno delle classi e dei ceti. Dunque, procedendo in tale ricerca con una strumentazione quanto più possibile articolata e pragmatica, scevra per quanto è possibile da ideologizzazioni deformanti, mi sembra già un passo avanti verso un’accettabile definizione di base di cosa sia una classe quella proposta a suo tempo da Lenin, da me già utilizzata in altri scritti precedenti:

«Si chiamano classi quei grandi gruppi di persone che si distinguono tra loro per il posto che occupano in un sistema storicamente determinato di produzione sociale, per il loro rapporto, per lo più sanzionato e fissato da leggi, con i mezzi di produzione, per la loro funzione nell’organizzazione sociale del lavoro e, quindi, per il modo in cui ottengono e per la dimensione che ha quella parte di ricchezza sociale di cui dispongono. Le classi sono gruppi di persone, l’uno dei quali può appropriarsi il lavoro dell’altro grazie al differente posto che occupa in un determinato sistema di economia sociale»65.

La definizione leniniana non può essere considerata “scientifica” così come faremmo con la legge di gravità, con la scala degli elementi chimici, con la temperatura di ebollizione o di congelamento dell’acqua o di fusione di un metallo e così via. Né elimina del tutto le citate contraddizioni marxiane in materia, e per certi versi aumenta la complessità del tema, introducendo alcuni fattori considerati invece inessenziali da Marx e Engels – come le differenze di reddito, il ruolo della distribuzione della ricchezza, e non solo della produzione di essa, l’importanza del possesso di fatto, oltre che della proprietà giuridica – al fine di individuare cosa può caratterizzare le classi e i ceti sociali. In tal senso, proprio perché più complessa e articolata dello striminzito abbozzo marxiano mai compiuto davvero, ma nel contempo decisamente meno ideologica e meno contraddittoria, la definizione leniniana può essere un accettabile punto di partenza per intenderci a proposito di classi, ceti e gruppi sociali, della loro possibile conflittualità con il capitalismo, delle loro relazioni reciproche che riguardino sia le possibili alleanze sia le differenze e divisioni interne. Essa ha aspetti di particolare interesse, che dimostrano il tentativo leniniano di interpretare la situazione sociale del capitalismo novecentesco (entrato, per Lenin, nella fase imperialistica) ma che possono aiutarci anche per il nostro secolo, una volta dimostrata la fallacia della previsione marxiana sulla bi-polarizzazione delle classi, sulla loro compattezza interna e sull’esito deterministico dello scontro tra le due “grandi classi” con la vittoria del proletariato.