«L’unità industriale gigante, perfettamente burocratizzata, soppianta non solo l’azienda piccola e media e ne espropria i proprietari ma soppianta in definitiva l’imprenditore ed espropria la borghesia come classe, destinata a perdere non tanto il suo reddito quanto, cosa molto più importante, la sua funzione»60.

O altrettanto nettamente: «Il processo capitalistico caccia in secondo piano tutti gli istituti – ma specialmente quelli della proprietà e della libera contrattazione – in cui si esprimevano i bisogni e i modi di essere della attività economica privata…il processo capitalistico svuota il concetto di proprietà»61. E infine: «La moderna società per azioni, pur essendo un prodotto del processo capitalistico, socializza la mentalità borghese e riduce continuamente il campo d’azione del movente borghese e tende a minarne le basi62, laddove il movente borghese, o più precisamente del singolo capitalista, è per Schumpeter la ricerca del profitto individuale.

E’ di notevole interesse la conclusione che Schumpeter trasse da questa analisi a proposito del nuovo ruolo della politica e dei partiti nella dinamica di “espropriazione” del capitalista individuale e di dominio del capitalismo burocratico o di Stato, almeno per chi, come me, ritiene che il capitalismo di Stato sia un elemento fondamentale per spiegare la capacità del sistema di superare, e sovente di uscirne rinnovato e riciclato, le ricorrenti crisi economiche e sociali. Ma, tornando a Weber, mi preme qui sottolineare un ultimo aspetto rilevante della sua analisi, che è poi in genere il suo prodotto teorico più conosciuto e più controverso anche nell’ambito ideologico e culturale della borghesia capitalistica: il ruolo della religione e dell’etica protestante nella formazione dello spirito capitalistico. Weber dette grande rilievo alla centralità della religione nella vita sociale, oltre che nella vita individuale: potendo essa fornire spiegazioni sul significato della vita e della morte, Weber considerava assai grande, sul piano sociale, il peso delle religioni, contribuendo esse in maniera decisiva a determinare il senso morale nei rapporti politici, istituzionali e di potere, ma anche in quelli economici, nella produzione, nella distribuzione e nel consumo.
In particolare Weber sostenne – in quello che, insieme a Economia e società, è il suo più celebre libro, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo63 – che alla base del capitalismo, in aggiunta ad una serie di condizioni oggettive storiche, c’era l’etica protestante nella sua specifica tendenza calvinista, a partire dalla riforma luterana da cui gran parte della borghesia industriale dell’epoca avrebbe tratto ispirazione. L’insieme dei valori religiosi e morali protestanti e calvinisti sarebbe stata la fonte di riferimento delle modalità di accumulazione basate sulla rinuncia al consumo diretto e integrale del capitale e delle ricchezze e all’uso immediato di esse, come condizione cruciale per consentirne la riproduzione e l’accrescimento su larga scala. Il calvinismo, e la sua tendenza alla predestinazione, promuoverebbe una sorta di ascetismo terreno, perché – a differenza del cattolicesimo che fa dipendere la salvezza in questa vita e il premio in una successiva ipotetica vita ultraterrena dalle opere “buone” e, anche nel caso di cattive azioni e crimini, dal pentimento e redenzione – la salvezza o la dannazione individuale sarebbero per protestanti e calvinisti pre-determinate e pre-destinate nei piani divini.
Questa prospettiva provocherebbe nel singolo una base mentale ed emotiva di angoscia e ansia permanente sulla propria sorte, su un destino che parrebbe immodificabile. Il successo mondano – e nello specifico quello economico, garantito non da un abbondante consumo personale ma dalla crescita continua del proprio capitale e della propria ricchezza, certificabile in strutture produttive sempre più potenti ed estese e non nello sperpero dei propri averi – sarebbe la dimostrazione vivente del fatto che si è pre-destinati tra i “buoni”, tra gli eletti e i futuri premiati; mentre al contrario la miseria, la disoccupazione e l’assenza di proprietà, potere e successo sarebbero i segni della pre-determinazione della propria futura condanna. Il capitalista, dunque, vedrebbe nella ricerca del profitto e nella crescita della propria impresa e del proprio capitale non tanto o non solo un incremento al proprio potere e ai propri lussi ma una sorta di dovere morale, una dimostrazione della propria capacità di essere degno della salvezza che il divino gli avrebbe riservato: e di conseguenza egli reprimerebbe la propria voglia di consumi adeguati per far prevalere la razionalità economica, che sola gli può garantire quel successo borghese, segno inequivocabile di positiva predeterminazione ultraterrena.