All’epoca Marx trattò(65) il ruolo delle innovazioni tecnologiche, ridimensionandone assai, però, il ruolo nella produzione di profitto. A suo parere la crescente divisione del lavoro e l’introduzione di sempre nuove macchine – opere entrambi di uno stuolo di tecnici, di scienziati e di inventori non compresi nella categoria dei semplici salariati – consente effettivamente ad alcuni capitalisti, all’avanguardia in tali trasformazioni, di ottenere dei super-profitti, cioè dei profitti superiori a quelli ottenuti in media nel campo industriale di un determinato settore e rispetto a quelli ottenuti da coloro che continuino ad usare strumenti di produzione non innovati; ma, secondo Marx, tali profitti scompaiono rapidamente, e dunque non sono particolarmente degni di nota, in quanto gli altri capitalisti del settore si adeguano in fretta ai mutamenti e annullano gli extra-profitti, riconducendoli alla normalità, soggiacendo alla regola aurea che “è la legge la quale, entro i limiti delle oscillazioni dei cicli commerciali, riconduce necessariamente il prezzo di una merce ai suoi costi di produzione”(66).
Tale ragionamento poteva essere forse valido all’epoca, ossia in un periodo in cui la libera concorrenza inter-capitalistica, pur già inficiata da interventi statuali, da barriere doganali e interferenze politiche, era comunque in parte operante almeno all’interno di uno stesso paese e di uno specifico settore produttivo. Ma con il massiccio diffondersi dei monopoli industriali, l’opera di riequilibrio prodotta dalla concorrenza è oggi assai sovente ridotta ai minimi termini se non annullata del tutto: e così pure la possibilità di osmosi tra i settori produttivi (il fatto, spesso richiamato nel Capitale e in altri testi, che dei super-profitti in un settore vengano rapidamente annullati da un massiccio ingresso in quel settore di altri capitalisti che abbandonano produzioni meno profittevoli), il passaggio di nuovi attori nei luoghi ove si determinano super-guadagni.
Cosicché, laddove settori dell’apparato produttivo sono monopolizzati da oligarchie industriali, i profitti straordinari non sono affatto di breve durata e di quantità limitata nel tempo (citavo in precedenza i super-profitti delle nuove multinazionali infotelematiche rispetto a quelli dell’industria tradizionale, che perdurano in un arco di tempo considerevole), ma coprono a volte interi decenni, costituendo un elemento decisivo dell’attuale accumulazione di capitale: e di conseguenza ingigantendo il ruolo (anche in qualità di super-sfruttati in quanto produttori di super-profitti) di quella vasta area di tecnici, scienziati, informatici, progettisti ed innovatori che tali salti di qualità nella estrazione di plusvalore consentono. E che dire poi, sempre seguendo questo filone che potremmo definire dei nuovi produttori di nuovi profitti, del ruolo dei pubblicitari, degli inventori di idee incollate al prodotto, di coloro che confezionano l’involucro immateriale che lo avvolge in maniera decisiva al fine della vendita, dei creatori di brand, di marchi sovente venduti al posto del (o in aggiunta massiccia al) prodotto stesso? Quanto valore è immesso, ad esempio in un capo di abbigliamento, dalla quantità materiale di forza-lavoro occorrente per la sua tessitura, coloratura, confezionamento, e quanto invece dalla qualità (non misurabile in ore lavorative) della forza-lavoro immateriale contenuta nell’ideazione che rende il vestito appetibile in quanto legato ad una sensazione, una emozione, un valore di status sociale, insomma ad un elemento essenziale dell’apparire piuttosto che dell’essere materiale?
Prendiamo ad esempio un modello di scarpa da corsa prodotta in Cina, e immaginiamo (cosa che succede sovente e non solo per gli articoli prodotti in Cina) che la ditta produttrice ne faccia un doppio uso non lavorando solo su commissione, e dunque vendendone una parte direttamente nel mercato interno e dando l’altra per l’esportazione ad un fornitore di una multinazionale come la Nike o l’Adidas. La quantità di forza-lavoro materiale, che si è estrinsecata nella fabbrica cinese e che é immessa in entrambe le scarpe, è identica quale che sia la loro destinazione. Ma nella scarpa che verrà venduta in Occidente con il logo delle multinazionali dell’abbigliamento sportivo c’è un surplus di valore, ed è quello fornito proprio dal brand, dal marchio. Il compratore occidentale, cioè, non acquista solo la materialità della scarpa, la sua oggettualità: ma anche il carico immateriale immessovi da un logo che vale di per sé come riferimento emotivo, ideale, come status dell’apparire, come segno di distinzione o di identificazione.