I miti del Proletariato Unico e della Dittatura Proletaria. Classe operaia, plusvalore e profitto. I produttori di valore e lo sfruttamento. L’esempio del lavoro intellettuale.

Gennaio 2012

Questi ultimi due decenni, in cui in Europa il conflitto tra ultimi e penultimi nella scala sociale è stato sovente praticato più di quello ottocentesco e novecentesco Capitale-Lavoro, ci aiutano a riflettere a fondo, e a cambiare prospettiva, su alcuni veri e propri miti dell’ideologia social-comunista dei due precedenti secoli: quello del Proletariato Unico, del proletariato come unicum, corpo omogeneo destinato quasi geneticamente ad essere unito e indissolubile; e quello della palingenetica Dittatura Proletaria, premessa e anticamera della fine della lotta di classe, delle classi stesse e del conflitto sociale, una volta abolita la proprietà privata dei mezzi di produzione.
Per quel che riguarda la realizzazione di una stabile unità di interessi e intenti tra tutte le forze-lavoro, contrapposte come un’unica massa d’urto al Capitale, va ricordato che l’ideologia marxista – e la conseguente azione politica – solo dopo alcuni decenni di elaborazione introdusse quella distinzione tra classe in sé e classe per sé (cioè tra il proletariato quale realtà oggettiva, materiale e sociale, priva di coscienza dei propri, veri o presunti, fini storici, e il proletariato in quanto realtà politico-ideologica dotata di consapevolezza del proprio interesse storico di classe) che avrebbe costituito poi il retroterra delle teorie del Partito unico del Proletariato e del Partito-Stato.
L’elaborazione iniziale di Marx ed Engels su questo tema cruciale non prevedeva una simile distinzione. Per dimostrarlo, basta partire da quella sintesi del marxismo politico che è il Manifesto del Partito Comunista del 1848, vero e proprio faro per i comunisti dell’Ottocento e Novecento, la cui straordinaria rilevanza ancora per il PCI di un secolo dopo Palmiro Togliatti, all’epoca segretario e leader incontrastato del comunismo italiano staliniano, così sottolineava nella introduzione all’edizione italiana del Centenario (1948): “Se è vero che i libri hanno il loro destino, nessuno lo ebbe più singolare di questo di nemmeno cinquanta pagine scritto cento anni fa e diventato il punto di partenza del più profondo rivolgimento di pensiero e del più grande movimento sociale che mai la storia abbia conosciuto”(1). Dato il ruolo nella storia del movimento comunista di questo testo, probabilmente tra i dieci libri più famosi e più letti di ogni tempo, è opportuno ricordarne la genesi con le parole degli stessi autori, Karl Marx e Friedrich Engels:

“La Lega dei Comunisti (2), associazione internazionale degli operai, che nelle condizioni di allora non poteva naturalmente che essere segreta, nel Congresso tenutosi a Londra nel novembre 1847 incaricò i sottoscritti di redigere un programma pratico e teorico circostanziato del partito, destinato alla pubblicità. Così nacque il seguente Manifesto, il cui manoscritto fu inviato a Londra per la stampa poche settimane prima della rivoluzione di febbraio(3)(4).

Che non si trattasse di un testo propagandistico datato – destinato alla sola agitazione di breve periodo, e quindi necessariamente enfatico e anche demagogico nei passaggi destinati a galvanizzare per la lotta immediata settori proletari che si avvicinavano alla propaganda comunista – lo dimostra non solo tutta la centralità ad esso dedicata dai marxisti nei decenni successivi ma gli stessi commenti di Marx e di Engels nelle numerose introduzioni alle svariate edizioni internazionali scritte nei 45 anni successivi (fino alla morte di Engels), che ne ribadirono l’assoluta attualità – per suggerendo qua e là alcuni aggiornamenti che non avrebbe comunque mutato il senso generale del testo – e la sua massima importanza per il movimento comunista.