Dunque, mentre il costo della forza-lavoro, per quel che riguarda la parte “fisica”, è determinabile oggettivamente, e porta comunque già ad una vistosa differenziazione nel vastissimo campo dei salariati/e, aumentandone il prezzo a seconda della “professionalità” richiesta, il valore della forza-lavoro ha oltretutto un elemento storico e sociale che non è quantificabile a priori, visto che si basa non solo – come qui scriveva Marx – sul “tenore di vita tradizionale” e sulle “condizioni sociali in cui gli uomini sono stati educati” in un certo paese(58), ma anche sul livello dell’organizzazione politica e sociale che le varie parti del mondo salariato si danno, nonché sul ruolo che ogni singolo paese gioca nel mercato mondiale capitalistico. E a questo ultimo proposito lo stesso Marx introdusse un ulteriore elemento di differenziazione all’interno di quel campo proletario che in tante precedenti opere aveva descritto come sostanzialmente unito e dotato di comunanza di interessi a causa del processo – considerato omogeneizzante, livellante e parimenti immiserente – di sfruttamento capitalistico.

“In quanto al limite del valore del lavoro, la sua determinazione dipende sempre dalla domanda e dall’offerta, dalla domanda di lavoro da parte del capitale e dall’offerta di lavoro da parte degli operai. Nei paesi coloniali la legge della domanda e dell’offerta é favorevole all’operaio. Ciò spiega il livello relativamente alto dei salari negli Stati Uniti d’America. In questo paese il capitale può tentare tutto quello che vuole, esso non può impedire che il mercato del lavoro si svuoti continuamente in seguito alla trasformazione continua degli operai in contadini indipendenti che
provvedono a se stessi”(59).

Se attualizziamo il termine “coloniali” sostituendolo con “imperialisti”, possiamo tornare ai giorni nostri dicendo che, oltre al valore oggettivo delle diverse forze-lavoro (e non dell’astratta e univoca forza-lavoro al singolare), oltre alle differenze di valore dovute ai motivi storici e sociali succitati, al tenore di vita medio nazionale, alle aspettative di consumo in un certo luogo e in un certo periodo, i salariati nel mondo hanno condizioni ben variegate di retribuzione a seconda, ad esempio, che si trovino in una nazione imperialista, che si avvale della spoliazione delle ricchezze di altri paesi e dello scambio ineguale con essi, o in uno di quelli sfruttati e depredati dalle potenze dominanti. Nel primo caso una parte del bottino del saccheggio globale può essere ridistribuita – almeno nelle fasi favorevoli del ciclo dell’accumulazione, mentre essa si riduce drasticamente o si annulla in fasi di crisi potenti come quella in corso dal 2008 – anche tra i salariati, contribuendo ad elevarne le retribuzioni verso i livelli massimi compatibili con la riproduzione del capitale.
Dunque, anche nella analisi scientifica e materialistica marx-engelsiana della struttura del salario, della determinazione del valore del lavoro e della formazione del plusvalore erano già presenti gli elementi che dovevano annullare le illusioni sull’Unicità Proletaria, su un Proletariato unificato, omogeneizzato e spinto deterministicamente verso una prospettiva rivoluzionaria unitaria, ponendo conseguentemente come cruciali i temi della alleanza sociale tra i vari ceti e settori interessati al superamento del dominio del profitto e della merce, seppur collocati in diverse posizioni materiali nel contesto dato: e dunque anche quelli della organizzazione democratica e permanente dei vari interessi differenziati (quelli materiali del momento, non quelli presunti nella testa degli “scienziati comunisti”) e della loro traduzione in termini istituzionali, statuali e sociali.
La scelta di lottare contro il sistema capitalistico e per modificare le condizioni di vita o di lavoro non può che essere legata – oltre che a considerazioni complessive di carattere politico, ideologico e morale – soprattutto alle prospettive di miglioramento della propria condizione materiale e di un maggiore potere decisionale sulla propria sorte: e quindi tale scelta non può essere indipendente dai livelli salariali e di vita di ogni diverso strato di lavoratori/trici e dalle condizioni sociali di base in ogni paese. Ad esempio, durante tutto il dopoguerra fino alla caduta del Muro, malgrado gli appassionati peana che tanti partiti e sindacati comunisti occidentali rivolgevano al “socialismo realizzato” ad Est, esso non risultava attraente per la grande maggioranza dei salariati/e dell’Ovest da nessuno dei due punti di vista citati. La retribuzione delle forze-lavoro era ad Est, pur con la tara fatta sul costo della vita, ben più bassa che ad Ovest, e nettamente inferiori erano i beni di consumo disponibili. I servizi sociali pubblici e gratuiti non potevano compensare questo scarto, visto che anche ad Ovest essi erano largamente diffusi e, soprattutto nel Centro-Nord Europa, di qualità media superiore, tenendo conto che il capitalismo occidentale poteva contare sul saccheggio/scambio ineguale con il Sud del mondo, consentendosi dunque livelli di salario decisamente superiore al minimo (la “parte fisica” del salario secondo Marx) necessario per la pura sopravvivenza materiale: il che ha costituito la vera base strutturale del successo delle forze socialdemocratiche per tanti decenni.
Ma anche dal punto di vista del potere decisionale sulla propria sorte, la dittatura del Partito-Stato, impedendo ogni libertà di organizzazione politica e sindacale, consentiva margini decisionali reali solo alla nomenklatura della borghesia di Stato ma non alla grande maggioranza dei salariati: e seppure quella occidentale è stata in questi decenni una democrazia dimezzata e non sostanziale, pur tuttavia la maggior libertà di organizzazione politica e sindacale ha sempre dato l’impressione alla grande maggioranza dei salariati/e (che magari votava o era iscritta ai partiti e ai sindacati comunisti ma che, al di là delle chiacchiere, non avrebbe accettato nel proprio paese una struttura istituzionale modello Urss) che non fosse auspicabile uscire dall’Ovest per dirigersi ad Est. E anche oggi basta guardare ai conflitti tra lavoratori stanziali e migranti, all’identificazione che una parte dei settori popolari europei realizza con il proprio padronato nazionale in lotta contro i concorrenti nella selvaggia competizione globale, oppure le divisioni tra lavoratori/trici relativamente “stabili” e precari, per concludere sull’astrattezza di un Unicum Proletario, di una omogeneità data tra salariati, tra i quali in realtà ciò che è possibile e ricercabile è piuttosto una alleanza sociale e politica, mai acquisita però una volta per tutte.