“Poiché egli ha venduto la sua forza-lavoro al capitalista, l’intero valore, cioè il prodotto da lui creato, appartiene al capitalista che è, per un tempo determinato, il padrone della sua forza-lavoro. Il capitalista, anticipando tre scellini (n.d.s. Marx ipotizza una paga giornaliera di tre scellini), otterrà un valore di sei scellini, perché, anticipando un valore in cui sono cristallizzate sei ore di lavoro, egli ottiene invece un valore in cui sono cristallizzate dodici ore di lavoro…Il capitalista anticipa ogni giorno tre scellini e ne intasca sei, di cui una metà sarò impiegata per pagare nuovi salari e l’altra metà formerà il plusvalore, per il quale il capitalista non paga nessun equivalente. E’ su questa forma di scambio tra capitale e lavoro che la produzione capitalistica è fondata e che deve riprodurre continuamente l’operaio come operaio e il capitalista come capitalista…Il plusvalore, cioè quella parte del valore complessivo della merce in cui è incorporato il sopralavoro, o lavoro non pagato dell’operaio, io lo chiamo profitto”(52).

Su questo scambio ineguale si fonda dunque l’arcano dello sfruttamento del salariato e della produzione e riproduzione del Capitale. E il tasso di sfruttamento, per così dire, è dunque determinato dal rapporto tra lavoro retribuito e lavoro di cui il capitalista si appropria senza dare alcun equivalente. Il ché potrebbe far pensare che la fine dello sfruttamento si potrebbe raggiungere in base ad una generalizzata e forte lotta che, o attraverso una consistente riduzione di orario a parità di salario o un vistoso aumento salariale per tutti/e, elimini la parte non retribuita dell’uso della forza-lavoro e faccia in modo che per tutte le ore lavorate il padrone temporaneo della forza-lavoro del salariato debba pagare un corrispettivo. Ma Marx demolì l’ipotesi di fuoriuscita “sindacale”, per così dire, dal sistema capitalistico, dimostrando(53) che, seppure la lotta per aumenti significativi del salario o per la riduzione d’orario hanno effetti sulla diminuzione del plusvalore sottratto al lavoratore e del profitto incamerato dal capitalista, pur tuttavia l’aumento dei salari (o la riduzione di orario a parità di salario) è praticabile solo fin tanto che non impedisce, riducendo eccessivamente plusvalore e profitto, la riproduzione e accumulazione del capitale.

“Supponendo uguali tutte le altre circostanze, se il salario cresce, il lavoro non retribuito diminuisce in proporzione. Ma non appena questa diminuzione tocca il punto in cui il pluslavoro che aumenta il capitale non viene più offerto in quantità normale, subentra una reazione: una parte minore del reddito viene capitalizzata, l’accumulazione di capitale viene paralizzata e il movimento dei salari in aumento subisce un contraccolpo. L’aumento del prezzo del lavoro rimane dunque confinato entro limiti che non solo lasciano intatta la base del sistema capitalistico, ma assicurano anche la sua riproduzione su scala crescente. La legge dell’accumulazione capitalistica…esclude ogni diminuzione del grado di sfruttamento del lavoro e ogni aumento del prezzo del lavoro che espongano ad un serio pericolo la costante riproduzione, e su scala sempre più allargata, del rapporto capitalistico” (54).

Dunque – come la realtà del capitalismo, da quegli scritti ad oggi, ha ripetutamente confermato – se il grado di retribuzione salariale della forza-lavoro, grazie a lotte poderose dei lavoratori/trici e a circostanze produttive favorevoli, sale oltre un certo limite, al punto da mettere in gioco i profitti generali e da impedire la prosecuzione dell’accumulazione di capitale, il Sistema reagisce: il padrone (oggi preciserei: privato o di Stato) non è più interessato a investire, chiude le fabbriche e i luoghi produttivi, produce largamente disoccupazione e l’ampia disponibilità di un vasto esercito di disoccupati provoca un calo significativo dei salari fino a quando la “retribuzione” del Capitale non è ritenuta sufficiente per riprendere ad investire nella produzione.
Questa analisi, impeccabile ancora oggi, è però accompagnata da una lunga serie di elementi teorici che, tanto più alla luce dei mutamenti strutturali del capitalismo in questi ultimi 150 anni, mettono ulteriormente in discussione tutta la parte dell’idealismo post-hegeliano di Marx (ed Engels) in merito al Proletariato Unico, alla sua omogeneità, alla sua possibilità di esprimere interessi univoci, e all’effetto palingenetico dell’abolizione della proprietà privata e dell’auspicata “dittatura proletaria”. Per esempio per circa un ventennio, a partire dal Manifesto del Partito Comunista, a più riprese Marx sostenne l’esistenza di un processo quasi deterministico di omogeneizzazione dei salari degli operai e del loro inevitabile livellamento verso il basso (“la macchina cancella sempre più le differenze del lavoro e quasi dappertutto riduce il salario ad un eguale basso livello”…”la borghesia é incapace di rimanere ancora più a lungo la classe dominante perché é incapace di assicurare al suo schiavo, il proletario, la sua esistenza persino nei limiti della sua schiavitù”(55)). Ma negli anni di scrittura e di pubblicazione del Libro Primo del Capitale Marx modificò radicalmente questa posizione, fino a scrivere ad esempio: