L’intellettuale-massa – cioè il lavoro cognitivo salariato e precarizzato – vive una condizione produttiva, sociale e mentale molto simile a quella attraversata nell’Ottocento (seppur allora, come già detto, i tempi, i passaggi e le modalità furono un po’ meno traumatici) dal lavoro manuale, quando cioè nella rivoluzione industriale il capitalismo procedette allo scombussolamento delle pre-esistenti relazioni tra città e campagna, tra lavoro agricolo e attività artigianali, per poter mettere a disposizione del travolgente processo industriale di fabbrica le forze-lavoro necessarie a far funzionare quelle macchine che si erano appropriate del lavoro manuale e mentale accumulato nel fare e nel produrre dell’artigiano e del contadino.
Anche in quell’occasione, alla centralità di tali forze-lavoro nel processo produttivo si accompagnò un vasto processo di alienazione e di spossessamento dei saperi professionali di milioni di individui, della loro autonomia e indipendenza produttiva e mentale, la distruzione di vecchi mestieri e certezze, per fondare forza-lavoro manuale pura, cioè depurata dalle sue caratteristiche specifiche artigianali e di mestiere. Ma il declassamento odierno di gran parte del lavoro mentale è stato più intenso, rapido e traumatico di quello che spettò nell’Ottocento a contadini e artigiani: negli ultimi decenni la creazione di una vastissima intellettualità di massa salariata e precarizzata, messa al lavoro dalla catena informatica, è avvenuta creando un abisso tra tali condizioni e la rete di vantaggi, protezioni, tranquillità sociale e professionale di cui godevano i lavori intellettuali di qualità fino agli anni ’60. Di contro ai privilegi d’antan dell’intellettuale riscontriamo ora precarizzazione dilagante, massima instabilità lavorativa e sociale, salari spesso vicini alla pura sussistenza, soprattutto per i più giovani: e mentre ieri l’intero iter, dalla scuola alla pensione, era garantito e stabilizzato, così come il dominio sul proprio tempo di vita e di lavoro, ora la forza-lavoro intellettuale deve cedere all’acquirente anche piena disponibilità temporale e psicologica, continuando spesso a produrre pure al di fuori dell’orario e della sede lavorativa formale.
E nel contempo è svanita per gran parte degli intellettuali-massa la certezza di essere i depositari di una professione, così come a suo tempo successe ad artigiani e contadini al momento dell’ingresso in fabbrica, sottomessi alla catena meccanica: oggi come allora, ai nuovi salariati/e viene lasciata solo la possibilità di fornire lavoro produttivo astratto, fonte di plusvalore e profitto, ieri prevalentemente manuale, oggi soprattutto mentale(63).

“Alla libera professione si sostituiscono il lungo curriculum del precariato, tendenzialmente coincidente per molti/e con la stessa vita produttiva, e lo sfondamento verso il basso del confine tra vecchia professione e nuovi mestieri salariati: da medico a ‘curandero’ tuttofare, da architetto/ingegnere a disegnatore pagato a cottimo, da matematico a programmatore saltuario, da psicologo ad assistente domiciliare, da giornalista a impiegato passa-veline di agenzia. Svanisce la certezza di poter disporre appieno della propria mente, delle sue ideazioni, del proprio tempo extralavorativo. Il Capitale non si accontenta più né delle braccia, né del prodotto mentale, né accetta più il loro uso a tempo determinato: vuole l’anima del lavoratore, la sua partecipazione globale al processo di valorizzazione, e a tempo pieno. Qualità totale in tempo totale. Non sembra esserci rifugio per il nuovo lavoratore dipendente: come ai kamikaze produttivi giapponesi, si chiederà sempre più piena identificazione con gli obiettivi e i destini dell’impresa”(64).