Questo processo epocale avviene affidando nel contempo a queste nuove forze-lavoro un ruolo e un peso sempre crescente nella produzione globale di profitto. Alla fine del 2010, facendo un raffronto tra i profitti accumulati nel precedente quinquennio da Google e dalla Toyota, rapportati al numero di dipendenti delle due multinazionali, simboli tra i più eclatanti rispettivamente della produzione immateriale e di quella materiale classica novecentesca, si arrivava alla sorprendente conclusione che i salariati “mentali” di Google avevano prodotto pro-capite 30 volte più profitto di quelli “manuali” giapponesi. Pur facendo la tara a causa delle diverse fasi di sviluppo storico delle due produzioni, il divario appare così clamoroso da modificare significativamente la vecchia lettura dei produttori di valore. Per di più tale centralità nel processo produttivo viene enormemente ampliata da due fattori decisivi: 1) l’intensità quantitativa dell’alienazione dei saperi da parte della macchina
infotelematica; 2) l’estensione abnorme del processo di mercificazione in atto nel campo immateriale. Certo, anche la fabbrica ottocentesca immetteva nella catena meccanica i passaggi cognitivi della produzione artigianale, del sapere operaio degli ex-artigiani spossessati della loro autonomia e delle loro conoscenze. Ma nel passaggio dall’alienazione dei saperi per via meccanica a quella per via informatica, ci ritroviamo nelle condizioni da manuale di un eccesso di quantità che si trasforma in qualità. Non ci sono infatti paragoni possibili, sul piano quantitativo, tra i furti di saperi che la fabbrica della Rivoluzione industriale esercitava sui propri operai quando essi mettevano in atto i più ingegnosi artifizi per risparmiare (per sé) tempi ed energie o per migliorare il rapporto con la catena meccanica, e il gigantesco saccheggio di conoscenza che negli ultimi decenni l’apparato informatico ha fatto, alienandola a milioni di lavoratori intellettuali, inglobando ad esempio in un unico megaprogramma una massa enorme di esperienze analitiche, esami sintomatologici e indizi patologici, frutto dell’attività plurisecolare di moltitudini di medici, infermieri e specialisti sanitari; oppure, derubando in un colpo solo migliaia di progettisti per raggruppare in un programma informatico i vari schemi grafici delle auto del dopoguerra per farne derivare idee per nuove carrozzerie di automobili.
E il secondo fattore che ho citato amplifica altrettanto la centralità dei nuovi lavori mentali. Una produzione immateriale a fini di profitto esisteva anche nell’Ottocento e nella prima parte del Novecento. Ma c’è, pure qui, un accumulo gigantesco di quantità che trasforma qualitativamente il panorama quando si passa dalla produzione di libri o film o dischi della prima metà del ‘900 (certo già ben più significativa di quella ottocentesca) e la realtà di una odierna produzione immateriale che sovrasta oramai, in rese di profitto e occupazione di salariati/e, le classiche e solide produzioni fordiste, trasferendo nel mercato mondiale idee e immagini a 360 gradi, la scuola e l’informazione, il suono e la luce, la danza e il canto, la fotografia e il disegno, i giochi e i desideri.
Anche da questa angolazione si può verificare come un’altra delle previsioni centrali del marxismo non si sia realizzata. Marx ed Engels ritenevano che, con l’ingigantirsi del ruolo delle macchine, non sarebbe aumentato tanto il numero degli sfruttati quanto il grado di sfruttamento di ognuno: in altri termini ognuno/a avrebbe prodotto pro-capite sempre più plusvalore e profitto per i padroni, vedendo nel contempo diminuire progressivamente il valore sociale del proprio salario se non anche la parte “fisica” di esso. La realtà attuale ci dice piuttosto il contrario. Il Capitale ha messo in produzione ed ha mercificato sempre nuovi territori, e nuovi strati sociali vi agiscono come salariati produttori di plusvalore e profitto: ma le necessità di consumo di massa, i rapporti sociali, il ruolo dello Stato come capitalista collettivo, l’impellenza del controllo delle popolazioni, l’agire politico e sindacale organizzato hanno imposto, almeno al di fuori dei periodi di crisi economiche significative e nei paesi a capitalismo sviluppato, una sottrazione di plusvalore media pro-capite inferiore a quella ottocentesca, mentre invece si è ampliata di molto la folla di coloro che partecipano alla produzione di profitto, con un vasto spettro di figure, soggetti e forme di forze-lavoro non prevedibili dal comunismo ottocentesco e per lo più trascurati da quello novecentesco. Sono a buona ragione oggi trascinati all’interno del meccanismo di formazione di profitto (o meglio, di plusvalore non retribuito, e quindi in qualità di sfruttati nel senso dato all’aggettivo da Marx ed Engels) ad esempio i lavoratori/trici di quei settori pubblici, di quei servizi sociali o più generalmente di quell’insieme di Beni comuni che fino a ieri erano fuori dal campo della produzione capitalistica.