I produttori di valore e lo sfruttamento. L’esempio del lavoro intellettuale

Il termine proletario, reso popolarissimo da Marx, deriva dal latino “proletarius”, a sua volta legato a “proles”: il proletario era colui la cui unica “proprietà” era la prole. Nella Roma antica i proletari erano contrapposti nell’ordinamento sociale ai proprietari di terra, gli adsidui, ossia i possessori di una “sede”. I proletari inizialmente facevano tutt’uno coi capite censi, cioè con coloro che venivano censiti per la loro persona e non già per i loro averi, che risultavano miseri o inesistenti, ed erano estranei alle cinque classi dell’ordinamento sociale(61) censite per le proprietà. Ma poi il termine cambiò in parte significato, perché in relazione al servizio militare i proletari vennero distinti dagli altri capite censi: i primi erano coloro che possedevano meno di 1500 assi(62) ma più di 375 – ed in caso di necessità potevano essere arruolati-, i secondi coloro che ne avevano meno di 375 ed erano comunque esclusi dall’arruolamento.
Si può dire che qualcosa del genere sia avvenuto anche nell’uso moderno che Marx fece del termine “proletario”. Se nel primo ventennio dell’elaborazione teorica e politica marx-engelsiana il proletario era considerato colui che doveva vendere la forza-lavoro ai proprietari dei mezzi di produzione – quasi sempre un operaio dell’industria, anche se qualche volta Marx ed Engels facevano riferimento anche al bracciantato agricolo – ricevendo in cambio un salario ai limiti della sussistenza che comunque non gli consentiva praticamente alcuna proprietà (il proletariato della celebre indicazione politica di Marx, tendenzialmente rivoluzionario in quanto non aveva “da perdere che le proprie catene”), nella elaborazione successiva, analizzata in queste ultime pagine, esso cominciò ad essere descritto come differenziato al proprio interno a partire dalle disparità salariali, dalla diversa massa monetaria ricevuta in cambio della propria forza-lavoro.
Come abbiamo visto precedentemente, Marx – a partire dalla distinzione tra una parte “fisica” del salario, legata all’alimentazione e alla sopravvivenza e più o meno equivalente per tutti; ed un’altra parte “sociale” e “storica”, cioè dipendente dalla tradizione e dalla condizione generale della nazione dell’operaio, dallo sviluppo economico e dalla fase espansiva o meno del ciclo capitalistico in essa nel dato momento – prese ad includere nella determinazione del salario numerosi fattori aggiuntivi a quelli per la pura sopravvivenza: una istruzione conforme al livello della professionalità richiesta al lavoratore/trice; la cura della propria salute; una casa più o meno degna, con servizi più o meno adeguati; una famiglia a carico oppure no, con le spese conseguenti (le spese di riproduzione, con costi, anche per la famiglia, non limitati alla sola alimentazione); un certo livello di consumo al di là della sussistenza, tanto più esigente quanto più elevato fosse quello della borghesia, visto che lo stesso Marx fece esplicito riferimento ad una forma di giustificata invidia sociale, come elemento atto a influenzare il valore della forza-lavoro. Tale processo di differenziazione si è sviluppato molto nel corso del Novecento, fino a scavare veri e propri fossati di reddito e di condizioni di vita tra i lavoratori/trici del Nord e del Sud del mondo, ma anche divari significativi nel lavoro salariato di uno stesso paese, rendendo il termine “proletario”, nel suo senso originario, inadeguato almeno per una buona parte del lavoro dipendente dei paesi capitalisticamente sviluppati: cosicché oggi appare assai più corretto parlare di forze-lavoro, al plurale, e di salariati/e con significative differenziazioni al proprio interno, piuttosto che di una figura universale di Proletario Unico.