E’ mia ferma convinzione che, della lunga serie dei segretari nazionali e dei leader delle formazioni partorite dallo scioglimento del Pci, non se ne salvi nessuno, nella loro frenetica e penosa corsa a destra  e nella dismissione di qualsiasi contenuto di “sinistra”, se ne ripercorriamo le direzioni strategiche, il pensiero globale, gli spessori teorici, ideologici e finanche culturali e morali. Ma se ci riferiamo esclusivamente alla tattica, alla più stretta politique politicienne, non mi pare ci possano essere dubbi sul fatto che Enrico Letta li batta tutti in negativo, e di gran lunga, come miglior scattista verso il baratro politico ed elettorale. Giorgia Meloni e l’ultradestra non potevano trovare competitor migliore, per insipienza, goffaggine, capacità di collezionare inciampi a catena e autogol come manco il peggior calciatore italiano di ogni epoca: e di certo la leader dei Fratelli d’Italia (che, parafrasando i gloriosi Blues Brothers, e recuperandone l’acronimo BB, potremmo ri-denominare Black Brothers) dovrà ringraziare in primis proprio Letta e il suo “inner circle” il giorno dopo il prevedibilissimo trionfo suo e della ultradestra che ben rappresenta

Enrico Letta, autolesionistico sponsor di Meloni

Avvicinandosi ad elezioni cruciali per la propria sorte e per il partito che a fatica rappresenta, Letta aveva tre scelte, probabilmente comunque perdenti ma che potevano evitare al PD di incappare in una catastrofica debacle, lasciandosi aperta almeno una prospettiva di rivincita. Il segretario PD poteva fin da subito suonare la fanfara (già riuscita ai suoi predecessori in almeno due occasioni contro il berlusconismo e i governi con la destra post-fascista di Fini) dell’arrivo dei neo-fascisti (o fascistoidi) al potere, stavolta con maggioranze ben più vistose, enfatizzando i conseguenti rischi per la democrazia e la Costituzione: insomma, fin dal primo giorno successivo all’annuncio delle elezioni, avrebbe potuto paventare la fondata possibilità di un regime autoritario e illiberale alle porte. Ma, conseguentemente, Letta avrebbe poi dovuto invocare una sorta di “Comitato di salvezza nazionale”,  un neo-Fronte popolare per sbarrare la strada all’ultradestra, passando sopra alle scontate differenze interne di tale fronte. Avrebbe dunque dovuto cercare di mettere insieme tutti, dai Cinque Stelle a Calenda-Renzi fino a Sinistra Italiana, Verdi e +Europa, dando ovviamente ad ogni forza un peso di rappresentanza rapportato alla forza reale certificata dai sondaggi al momento. Il tentativo poteva fallire ma solo per decisione altrui, di coloro che sottraendosi alla cordata anti-regime ne avrebbero ridimensionato le possibilità, assumendosene tutta la responsabilità. Come seconda ipotesi, non riuscita la prima, Letta poteva mettere in piedi, certo più facilmente, un “fronte anti-regime” più ridotto ma pur sempre significativo, “perdonando” Conte per aver fatto cadere il governo e facendo asse con ciò che ancora si chiama M5S (impropriamente, perché oramai è a tutti gli effetti il partito di Conte), portandosi appresso senza difficoltà Sinistra Italiana, Verdi e + Europa: e così potendo puntare realisticamente ad un buon 40% elettorale, che avrebbe rappresentato comunque una onorevole sconfitta “di misura”, rendendo comunque difficile ai vincitori la gestione parlamentare. Infine, dopo aver tuonato così tanto contro i Cinque Stelle e Conte, poteva tenere fermo almeno l’asse dell’alleanza realizzata con Calenda-Renzi contando sulla possibilità di “sfondamento”  dei due leader nelle aree di centrodestra, e puntando comunque ad un realistico 35%, pur sempre perdente, ma con numeri tali da impedire il trionfo dilagante dell’ultradestra.

Ha invece scelto la strada più perdente in assoluto e quella più rilevatrice della ben poca credibilità che le grida “al lupo, al lupo” fascistoide in arrivo hanno nel gruppo dirigente PD. Ossia, l’opzione dell’alleanza con la forza minore, quell’accoppiata Sinistra Italiana-Verdi, che, pur ingigantita oltre il credibile negli annunci della prima ora, faticherà a superare lo sbarramento del 3% e comunque lascerà pressoché invariato il peso dell’alleanza rispetto ad una corsa solitaria del PD, tanto più depotenziata dalle dichiarazioni di entrambi i contraenti del patto che trattasi di puro aggregato elettorale che si scioglierà un minuto dopo l’apertura delle urne. Peso che però sembra ben difficilmente incrementabile con il brusco avvio della “campagna antifascista”, quando, resisi tardivamente conto delle dimensioni catastrofiche della possibile sconfitta, nelle segrete stanze della direzione del PD hanno pensato di non avere altre armi per limitare i danni che cercare di dimostrare la pericolosità dell’avvento al potere dell’ultradestra. Molti tra i commentatori e gli analisti politici più benevoli nei confronti del leader PD hanno nei giorni scorsi provato a giustificare il comportamento di Letta e dei suoi spostando le responsabilità della catastrofe tattica e strategica lettiana sulla grande abilità di Giorgia Meloni nel disinnescare le armi dell’antifascismo improvvisato dei suoi avversari. Hanno cioè messo in evidenza e ingigantito i meriti, certo non irrilevanti, della leader dei Black Brothers nel cercare di annullare le armi a disposizione della concorrenza, usate per giustificare l’impellente necessità di tenere lontana da palazzo Chigi Meloni e i BB.

Indubbiamente, se si guarda la superficie del suo comportamento e alcune giravolte camaleontiche, Meloni ha lavorato bene in questa attività di disinnesco delle più esplosive “mine” politiche che infestavano la strada che la dovrebbe portare, prima donna nella storia della Repubblica, alla prossima presidenza del Consiglio. Meloni e i BB erano ieri ferocemente contro l’Unione Europea e per l’uscita dall’euro? Oggi si dichiarano senza pudore europeisti e perfettamente a loro agio con la moneta, “maledetta” fino ad un paio di anni fa. Erano seccamente contro i vincoli del Patto di stabilità? Oggi sono altrettanto decisamente contro lo scostamento di bilancio. Godevano dell’amicizia e della stima, reciproca, di Putin? Oggi il satrapo russo parrebbe divenuto il loro nemico principale e sono del tutto schierati a fianco della resistenza ucraina. Ieri la Nato era un fardello insostenibile? Oggi sembrerebbe essersi mutata in una garanzia di difesa nei confronti dell’imperialismo russo e magari anche di quello cinese, capriola politica peraltro neanche troppo difficile per chi nei confronti dell’URSS, della Cina e dei suoi epigoni non ha mai lesinato ostilità e condanne, fin dalla nascita del MSI: e dunque inni all’alleato statunitense, all’invio delle armi all’Ucraina e auspici di vittoria contro l’aggressore russo. E si potrebbe continuare a proposito del trasformismo più smaccato dei pretendenti alla gestione del prossimo governo. Questo camaleontismo – hanno commentato molti notisti politici – ha spinto Letta a considerare per alcuni mesi Meloni e i suoi una sorta di alleati nei confronti dei comuni nemici, Salvini e Conte, al punto da far addirittura vociferare di un possibile governo con dentro sia il PD sia Fratelli d’Italia. Cosicché, una volta realizzata la portata e le reali dimensioni della débacle in arrivo, la leadership PD si sarebbe trovati disarmata nel contrastare un avversario che, su alcuni punti, sembrerebbe aver fatto propri i capisaldi della politica del centrosinistra degli ultimi anni.

Meloni e lo spirito reazionario

Ma è davvero così? Davvero Meloni e i suoi sarebbero già stati “addomesticati” e resi innocui e digeribili dai “poteri forti” nazionali e internazionali, come rapidamente capitato a tanta parte dei “grillozzi”? Personalmente, tendo a diffidare fortemente e fatico molto a prendere sul serio l’apparente trasformismo meloniano, che certamente potrà riguardare alcuni temi come la guerra, il PNRR, il rapporto con l’euro e con l’imprenditoria italiana. Ma questa trasformazione non ha riguardato, e credo non riguarderà, il nucleo profondo del pensiero di questo partito post-fascista che però del fascismo ha ereditato non certo l’obiettivo impossibile di un regime dittatoriale, della repressione spietata degli avversari e del monopolio dei diritti politici e sindacali, ma pur tuttavia qualcosa di profondo e di praticabile qui ed ora, quel qualcosa che lega Meloni agli Orban, alle Le Pen, a Vox, ai trumpiani e all’ultradestra europea, e che poi è il più profondo lascito della fiamma mussoliniana e, a seguire, del Movimento Sociale Italiano. Non a caso Meloni si è sempre decisamente rifiutata di togliere dal simbolo del suo partito quella fiamma tricolore che li lega indissolubilmente all’eredità mussoliniana, tenuta in vita per decenni dal gruppo dirigente almirantiano del MSI. Per chi non conoscesse l’origine della fiamma tricolore che campeggiava nel simbolo del MSI, e attualmente, pur se rimpiccolito, in quello dei BB, esso venne ideato nel 1946 dal gruppo di reduci fascisti della Repubblica di Salò (Almirante e Romualdi in testa) che fondarono il MSI in continuità con lo spirito, l’ideologia e la cultura del ventennio mussoliniano. La fiamma voleva simboleggiare la permanenza dello spirito fascista, risorgente dalla tomba del regime (il trapezio alla base della fiamma tricolore). Ma col tempo il simbolo andò oltre e per i militanti quel trapezio non rappresentava più una generica tomba fascista ma quella di Mussolini, il cui spirito, appunto, risorgeva per ispirare il MSI come suo erede: dunque qualcosa di ben più profondo di un generico sentimento nazionalista “tricolore” emerge dal simbolo, e cioè la volontà di rifarsi alla vitalità dello spirito mussoliniano, che da quel sepolcro trabocca per pervadere ancora e nel futuro la cultura e l’ideologia di un paese così permeato già di suo di tale cultura, e che ne aveva trovato proprio in Mussolini il più efficace interprete. E Meloni e i BB, con il recupero del simbolo storico (che Fini era stato costretto da Berlusconi ad abbandonare, sciogliendo Alleanza nazionale e confluendo nel Popolo delle Libertà), seppur ridimensionato e privato del trapezio-base, proprio a questa continuità ideale voleva e vuole rifarsi. rivendicando con fierezza la validità della tradizione politica post-mussoliniana.

Chi ha ascoltato (o ne ha letto le cronache) i comizi o gli interventi pubblici di Giorgia Meloni, e anche quelli tenuti durante questa campagna elettorale, ha potuto constatare agevolmente come essa, a parte le giravolte trasformiste e opportuniste sui temi del momento (guerra, Nato, PNRR, euro ecc.), nulla della visione e della cultura profonda reazionaria novecentesca (la stessa cultura che permea l’ultradestra europea e, seppur in forme particolari, il trumpismo USA) sia stato davvero abbandonato o rinnegato da Meloni e dal suo partito. Il filone base è quello del culto della stirpe, del “sangue”, della nazione non intesa come realtà storico-geografica ma come insieme di razza, etnia, religione unica, cultura compatta e omogenea. E nel contempo, nel rivendicare il valore della stirpe, della tradizione e di un passato mitizzato come nell’era mussoliniana, Meloni abitualmente indica il nemico nella “modernità”, nella globalizzazione, nel multiculturalismo, nel “meticciato” e nell’intersezione e mescolanza di culture, etnie, religioni e stirpi, indicati tutti come nemici a cui dichiarare guerra (e non solo simbolica) perché il “moderno”, così definito e così rifiutato in blocco, contaminerebbe pericolosamente la “stirpe”, la sua identità profonda e le appartenenze storiche. Nell’ideologia meloniana, in sintonia con quella dell’ultradestra europea e statunitense, “l’identità è il terreno di scontro fondamentale del nostro tempo. L’identità è il principale nemico del mainstream globalista“. Con lei, così come altrove con Vox, Le Pen, Orban, con l’AFD tedesca, i fascistoidi svedesi ecc. si chiama alle armi un popolo “identitario”, una vera e propria “stirpe di sangue” che è sollecitata a resistere al “nuovo”, che non è visto come una opportunità per aggiornare e approfondire i propri riferimenti culturali e ideali, ma come un elemento distruttivo della propria tradizione che è fatta, dice Meloni, “di orgoglio nazionale, radici, storia e identità“, elementi distintivi e indispensabili per contrastare “la decadenza dei costumi e degli stili di vita, il laicismo e l’individualismo dominanti”. L’ideologia meloniana, la si può leggere senza difficoltà in questa sintetica “summa” delle minacce che incomberebbe ro sulla “stirpe” e sulla sua identità: “Tutto ciò che ci identifica è sotto attacco. E’ sotto attacco la persona, il senso del sacro, la famiglia, l’identità sessuale, la spiritualità, le stesse radici cristiane, il lavoro, la libertà di impresa, i confini delle nostre nazioni, la nostra storia processata vigliaccamente dalla ‘cancel culture’, la nostra libertà di espressione, censurata ogni giorno nella vita reale, sui media e sui social network, dalla dittatura del politicamente corretto“. E per gli europeisti miopi che si illudono sulla “conversione” di Meloni e dei Black Brothers, basti ricordare quegli improvvisi bagliori di verità che la leader dell’ultradestra italiana, e domani probabilmente di quella europea, si è lasciata scappare anche negli eventi pubblici di piazza di questa campagna elettorale. Come ad esempio quando, durante il comizio congiunto con Vox in Spagna, nell’esaltazione del “magnifico patrimonio di tradizioni“, interpretate come ben lontane dagli attuali valori prevalenti nell’Unione Europea, ha aggiunto sprezzante: “Non ci faremo dire dai burocrati di Bruxelles se possiamo mangiare il nostro parmigiano e il vostro pata negra“, rincarando pochi giorni dopo, all’indirizzo dei suddetti “burocrati”, che per essi “con la vittoria dell’Europa dei patrioti la pacchia è finita“.

Sopra la nazione, che non è una costruzione libera e volontaria ma un gruppo omogeneo, una comunità di sangue, una massa uniforme (‘noi crediamo in una nazione, un popolo, una lingua, una bandiera’ afferma Meloni), si impone la figura salvifica di un capo carismatico che si affermi attraverso il rito purificatore dell’elezione diretta di un decisore che, incarnando lo spirito del popolo, non deve sobbarcarsi la fatica di affinare la cultura di governo. Non è certo Meloni ad essere cambiata quando scrive che ‘è sotto attacco la Patria, il valore più alto che tiene insieme tutti gli altri, perché é insieme comunità, confini, storia e identità’. Una Meloni liberale, pronta a codificare il ‘diritto a non abortire’ é un’invenzione, è pura fantasia (Michele Prospero)“.

Quali possibili conseguenze di un governo egemonizzato dall’ultradestra?

 Se osserviamo da questa prospettiva i prevedibili effetti dell’inevitabile successo elettorale dell’ultradestra, possiamo certo elencarne alcuni passaggi nei campi più immediati dell’azione politica del nuovo governo, che molto probabilmente non riguarderanno tanto una cesura rispetto alle politiche economiche del governo Draghi, né rispetto alle posizioni sulla guerra, sulla militarizzazione, sui rapporti con la Nato e gli Stati Uniti. Ma c’è da attendersi piuttosto una forte regressione sul piano dei diritti civili e umani, tentativi di ritorni indietro sui diritti delle donne; peggioramento delle condizioni di accoglienza dei migranti, con la cancellazione di ogni prospettiva di “diritto di suolo” e “diritto di scolarità” per la concessione della cittadinanza italiana; politiche ostili alle comunità LGBT; giri di vite contro i diritti delle persone “ristrette” in carcere e contro le manifestazioni di piazza conflittuali; recrudescenza delle ossessioni securitarie e delle norme giuridiche contro le opposizioni “radicali” e contro le lotte ambientaliste e climatiste; e, su un piano più istituzionale, tentativi di modifiche costituzionali significative, a partire da un presidenzialismo peraltro privo di quei contrappesi esistenti in paesi come la Francia che a questo approdo sono giunti da decenni.

Ma a mio avviso, proprio in base a quanto ho cercato di mettere in evidenza fin qui a proposito della continuità ideologica e culturale con lo spirito reazionario novecentesco, attualizzato ovviamente ai nostri tempi e all’evoluzione sociale, credo che vada soprattutto temuto, e ostacolato con forza, il prevedibile tentativo di affermare, al di là di questo o quel provvedimento, una complessiva visione del mondo, una weltanschauung, una globale ideologia e cultura nella società italiana. Può sembrare esagerato che si ritenga in grado Meloni e il suo partito di veleggiare con successo in tali procellosi mari: ma non va dimenticato che questa cultura della “stirpe” ha solide fondamenta in Italia e in Europa e non nasce solo con il fascismo storico, e che ha profonde radici popolari, oltretutto in una fase in cui l’ultradestra non è votata e sostenuta tanto dalle élites e dalla “buona” borghesia, come nel caso dei fascismi prima della Seconda guerra mondiale e durante essa, quanto, spesso in maggioranza, da ceti operai, popolari, settori di lavoro dipendente e subordinato, disoccupati, pensionati. E si può immaginare quanto per l’affermazione di tale weltanschauung potrebbe contribuire la gestione per una intera legislatura della televisione di Stato, in aggiunta a quella privata, nonché la assai probabile conversione di buona parte della stampa mainstream, a partire da quel Corriere della Sera che, come in tutti  passaggi-chiave della vita politica italiana, già sta anticipando umori e vizi della borghesia cialtrona, voltagabbana e “Franza e Spagna, basta che se magna” che la nostra Italietta ha dovuto sempre subire.

Certo, molte voci sostengono che il prevedibile governo ad egemonia meloniana non durerà. Che  solidi paletti verranno posti dalla UE e dai principali gruppi di potere economico e politico europeo per impedire che il nascente governo metta in discussione l’UE e gli equilibri europei e che estenda il “contagio” a paesi come la Spagna, la Francia e vada anche oltre; e che verranno bloccati in particolare i prevedibili attacchi ai diritti civili, umani e sociali più rilevanti. Ma soprattutto – dicono queste “voci” – saranno gli altri due partiti dell’alleanza a mettere i bastoni tra le ruote a Meloni e a Fratelli d’Italia: uno (Berlusconi e ciò che resta di Forza Italia) per ragioni economiche ma anche di collocazione sociale e culturale; l’altro, la Lega salviniana, per una pura e semplice ragione di sopravvivenza politica. L’ipotesi non è da scartare, tanto più che, a partire dalla guerra in Ucraina, sempre più devastante e ad altissimo rischio di estensione, le variabili dell’immediato futuro appaiono tante e tali da non poter scommettere con certezza su quasi niente. Pur tuttavia, soprattutto se il successo di Meloni e dei suoi sarà netto e con numeri decisamente superiori a quelli degli altri due partiti messi insieme, e se in particolare Forza Italia uscisse con le ossa rotta dalle urne e altrettanto accadesse ad una Lega che, a tal punto, dovrebbe accantonare o ridimensionare Salvini, non pare facile una “sollevazione” dei due partiti, risultati seccamente minoritari, contro Meloni, peraltro rinunciando al potere conseguente, certo inferiore a quello meloniano ma garantito per un’intera legislatura. E in nome poi di cosa e per cosa? Di un nuovo governo Draghi o simil-Draghi nel quale fare da comparse?

E noi, in questo mare tempestoso?

Il “noi” non si riferisce solo all’organizzazione di cui sono portavoce, la Confederazione COBAS, e neanche esclusivamente a quella che di solito chiamo la compagneria, ossia l’area più militante della sinistra conflittuale e anti-sistema. Ma intende riferirsi alle più ampie e varie forme di conflittualità e di movimenti, anche solo settoriali o territoriali, che su un ampio arco di temi lottano per cambiare in meglio le condizioni economiche, sociali, ambientali e civili dei settori popolari italiani, nel senso più largo del termine. Questo ampio popolo conflittuale non potrà restare indifferente ad un risultato elettorale che, presumibilmente, darà una considerevole maggioranza parlamentare ad un altrettanto probabilissimo governo di destra e egemonizzato dalla destra più “radicale”. Per quel che compete ed è nelle possibilità delle aree storicamente più militanti e combattive, dovremmo cercare di evitare due errori opposti ma egualmente sterili e/o dannosi. Il primo, quello a cui potremmo essere indotti dalla pressione che certamente la “sinistra” (si fa per dire) istituzionale eserciterà (magari tramite la Cgil soprattutto) per attivare una sorta di neo-frontismo contro l’ultradestra, cercando di nascondere tutte le responsabilità di chi, come il PD, ha governato pressoché ininterrottamente (tranne la breve parentesi 5Stelle-Lega) negli ultimi dieci anni, creando tutte le condizioni per il successo di tale destra. Ma la resistenza a questo tentativo, che peraltro non credo che avrà la stessa efficacia che ebbe il frontismo anti-berlusconiano, per il discredito che da allora ha investito tutto lo schieramento di centrosinistra, potrebbe incentivare un atteggiamento di segno opposto ma altrettanto sbagliato: e cioè comportarsi come se un governo a trazione Meloni non sia altro che una variante degli ultimi governi, e di quello Draghi in particolare, e dunque ritenere che i caratteri della nostra opposizione non ne risentiranno, e che i temi di conflitto resteranno più o meno gli stessi. Ora, questa continuità ci sarà assai probabilmente su parecchi (ma non tutti, basti pensare al reddito di cittadinanza) temi economici o riguardanti guerra e militarizzazione. Ma, se è corretta l’analisi che ho tratteggiato a proposito della continuità ideologica, culturale e civile di Meloni e del suo partito con il nucleo più profondo del pensiero reazionario novecentesco, sui vari punti che ho elencato nel precedente paragrafo ci sarà una indubbia recrudescenza o inversione di tendenza rispetto ai diritti civili e alle libertà democratiche e costituzionali. Che, conseguentemente, dovrebbe/potrebbe provocare la discesa in campo di un’opposizione più vasta, coinvolgente anche aree, settori e strati di popolazione magari meno sensibili al conflitto economico in senso stretto. E sarebbe un errore altrettanto dannoso di quello di un acritico “frontismo” quello di lasciare l’egemonia di nuovi soggetti potenzialmente conflittuali a quel centrosinistra che, pure su questi temi, non ha mai scelto una linea coraggiosa, incisiva e conseguente in tutti gli anni in cui ha governato.

Per riuscire a tenere la barra dritta ed evitare di infrangersi sugli “scogli” opposti e ugualmente forieri di naufragi politici, bisognerebbe finalmente riuscire in un’impresa che in Italia continua a risultare improba, di scarso successo o breve durata: quella di imparare a fare coalizione, alleanze, convergenze, accettando il semplice principio, peraltro quotidianamente verificabile, che non esiste un conflitto con il sistema dominante che prevalga nettamente sugli altri, che sia prioritario e al quale tutti gli altri motivi di scontro si debbano subordinare. E di conseguenza, non ci sono forze, movimenti, reti o organizzazioni, politiche, sociali o sindacali, che possano arrogarsi il diritto/dovere di fare da guida egemonica dell’intero fronte conflittuale. E’ un principio che a parole sembra venire accettato da gran parte del “popolo conflittuale” organizzato. Salvo poi, alla prova dei fatti, verificare costantemente la rinascita, anche tra i nuovi movimenti o reti e organizzazioni più recenti e “fresche”, il ripetersi puntuale dell’autocentratura, delle illusioni di autosufficienza, delle disponibilità di fare coalizione e convergenza solo se queste si realizzano intorno alle proprie strutture e impostazioni, in uno sgradevole e noiosamente ripetitivo modello egemonico di primazia politica e sociale. Se è pur vero che in certi momenti alcuni temi possono prevalere su altri (oggi ad esempio guerra, crisi climatica e ambientale ecc.) nel medio periodo nessuno di questi temi conflittuali può schiacciare e annullare gli altri: e quindi la pratica dovrebbe sempre prevedere la polivalenza e la pariteticità delle componenti conflittuali, evitando la “reductio ad unum” degli argomenti e dei soggetti del conflitto. Visti i numerosi tentativi scarsamente fruttuosi del passato, non ripeterò l’oramai vetusto appello al “se non ora quando” per tale indispensabile cambio di comportamenti e pratiche. Si può però almeno sperare che l’ampliarsi, molto probabile, dei temi di scontro con il nuovo governo, e la discesa in campo auspicabile di nuovi soggetti e forze, possa aiutare a muoversi in questa direzione paritetica, inclusiva e non egemonica, nell’organizzazione dei conflitti e delle iniziative nazionali e locali che ci aspettano in questo assai difficile, complesso e tempestoso autunno di lotte politiche,, sindacali e sociali.

Piero Bernocchi