Prima e subito dopo le elezioni abbiamo messo in guardia da una lettura superficiale che vedeva l’imminente governo Meloni solo come una prosecuzione dell'”agenda Draghi” sulle questioni economiche e belliche: perché prevedevamo che, al di là dei singoli provvedimenti, la principale aggressione sarebbe avvenuta sul piano della “visione del mondo”, della cultura e dell’ideologia oscurantiste, sovraniste, padronali e patriarcali. In realtà, il trasformismo meloniano, allineato con il governo Draghi su guerra (al cui proposito,ribadiamo il nostro NO all’invasione russa dell’Ucraina, alle minacce di uso delle atomiche e all’invio delle armi, e ci uniamo alla richiesta di “cessate il fuoco” e di immediate trattative di pace, mantenendo la sovranità statale dell’Ucraina), PNRR, UE, alleanze internazionali, euro ecc. non investe il nucleo profondo del pensiero di un partito che del fascismo ha ereditato non certo l’obiettivo di un regime dittatoriale, ma pur qualcosa di profondo, che lega Meloni a Orban, a Le Pen, a Vox, ai trumpiani e all’ultradestra europea. Non a caso Meloni si rifiuta di togliere dal simbolo del suo partito quella fiamma tricolore che li lega all’eredità mussoliniana, coltivata per decenni dal gruppo dirigente almirantiano del MSI. Negli interventi pubblici di Meloni nulla della cultura reazionaria novecentesca viene rinnegato, il culto della stirpe, della nazione intesa come insieme di razza, etnia, religione unica, cultura omogenea. E nel rivendicare il valore della stirpe e di un passato mitizzato come nell’era mussoliniana, Meloni indica il nemico nella “modernità”, che sostiene la convivenza e la mescolanza di culture, etnie, religioni: perché il “moderno” contaminerebbe la “stirpe”, la sua identità profonda. Nell’ideologia meloniana “l’identità è il terreno di scontro fondamentale del nostro tempo. L’identità è il principale nemico del mainstream globalista“: e conseguentemente, si chiama alle armi un popolo “identitario”, una “stirpe di sangue” che è sollecitata a combattere il “nuovo”, ritenuto distruttivo della propria tradizione, fatta, dice Meloni, “di orgoglio nazionale, radici, storia e identità“, elementi indispensabili per contrastare “la decadenza dei costumi e degli stili di vita, il laicismo e l’individualismo dominanti”. L’ideologia meloniana la si ritrova in questa sua  “summa” delle minacce che incomberebbero sulla “stirpe” : “Tutto ciò che ci identifica è sotto attacco. E’ sotto attacco la persona, il senso del sacro, la famiglia, l’identità sessuale, la spiritualità, le stesse radici cristiane, il lavoro, la libertà di impresa, i confini delle nostre nazioni, la nostra storia processata vigliaccamente dalla ‘cancel culture’, la nostra libertà di espressione, censurata ogni giorno nella vita reale, sui media e sui social network, dalla dittatura del politicamente corretto“. 

 Dunque, prevedevamo che ci si dovesse attendere dal nuovo governo una forte regressione sul piano dei diritti civili e umani, dei diritti delle donne; il peggioramento dell’accoglienza dei migranti, con la cancellazione di ogni prospettiva di “diritto di suolo e di scolarità”; politiche ostili alle comunità LGBTQ+ e ai diritti delle persone in carcere e contro le manifestazioni di piazza conflittuali; recrudescenza delle ossessioni securitarie e delle norme giuridiche contro le opposizioni “radicali” e le lotte ambientaliste; e tentativi di modifiche costituzionali a partire da un presidenzialismo privo dei contrappesi esistenti in altri paesi e dall’”autonomia differenziata”, con la frantumazione regionalistica di scuola, sanità, servizi pubblici e beni comuni. E per avere prime verifiche, non abbiamo dovuto aspettare i provvedimenti legislativi: è bastata già l’assegnazione delle cariche in Parlamento e la composizione del nuovo governo. La scelta di un “fascistone” storico e mai “pentito” come La Russa, che ha rivendicato con fierezza gli scontri “a mano armata” con i militanti di sinistra negli anni ’70; o quella di un Fontana che appare la “summa” delle visioni più reazionarie e retrive sul piano dei diritti civili e individuali, ha un portato provocatorio scientemente ricercato. Ma nella composizione del nuovo governo (che doveva essere di “alto profilo” e invece è fatto per lo più di personale di quart’ordine) Meloni si è superata ri-denominando, con toni persino grotteschi, parecchi ministeri, con una nomenclatura che è già una dichiarazione di guerra. Il Mise (Sviluppo economico) diventa “Imprese e made in Italy“: spariscono i milioni di lavoratori/trici coinvolti, il lavoro è solo quello dell’imprenditoria, e per giunta quello “made in Italy”, con un ridicolo inno ad un’autarchia legata alle commesse statali. Il ministero “Politiche del mare e Sud” è tagliato apposta per maltrattare ulteriormente i migranti, con il controllo dei porti affidato ad un altro “fascistone”, l’ex governatore della Sicilia Nello Musumeci. Al Ministero dell’Agricoltura si aggiunge la “sovranità alimentare“, termine lanciato da Via Campesina da sinistra, ma che a destra assume il significato di mito autarchico in difesa dei moderni “agrari” del Nord. Il ministero delle Pari opportunità diviene un “Ministero della famiglia e della natalità“, che ovviamente inviterà le famiglie “tradizionali” a fare figli con reminiscenze mussoliniane, assegnato a Roccella che sostiene che “l’aborto non è un diritto“, ferocemente contraria come Fontana a qualsiasi unione fuori dalla  famiglia “tradizionale”. E infine, il capolavoro lo fanno nel Ministero dell’Istruzione, che diviene sbalorditivamente “Ministero Istruzione e merito“. Ma in cosa consisterebbe questo “merito”? E “merito” di chi? Dei docenti ed Ata? Degli studenti? E poi: questo sbandierato “merito” varrebbe solo per l’istruzione? E nella Sanità, nella Pubblica Amministrazione, negli Enti locali, nei Ministeri, nella onnivora burocrazia nazionale?

Da varie parti si sostiene che saranno gli altri due partiti dell’alleanza a far cadere Meloni entro pochi mesi. L’ipotesi non è da scartare, anche se non pare facile una “sollevazione” di due partiti risultati minoritari nei confronti di FdI, rinunciando al potere garantito per un’intera legislatura. In ogni caso, sarebbe un clamoroso errore pensare ad un governo che cade per contraddizioni interne. La recrudescenza negativa rispetto ai diritti civili e alle libertà democratiche dovrebbe/potrebbe provocare la discesa in campo di un’opposizione coinvolgente anche strati di popolazione meno sensibili al conflitto economico in senso stretto. E sarebbe un errore altrettanto dannoso di quello di un acritico “frontismo” il lasciare l’egemonia di nuovi soggetti potenzialmente conflittuali a quel centrosinistra che, pure su questi temi, non ha mai scelto una linea incisiva, senza modificare norme arretrate o in alcuni casi oscurantiste in tutti gli anni in cui ha governato. Per raggiungere risultati significativi, bisogna però riuscire in un’impresa che in Italia continua a risultare improba: quella di fare coalizione evitando il ripetersi delle illusioni di autosufficienza. Si può sperare che l’ampliarsi dei temi di scontro con il nuovo governo, e la discesa in campo di nuovi soggetti e forze possano aiutare a convergere e ad agire insieme, in forma inclusiva, paritetica e non egemonica, nella promozione dei conflitti e delle iniziative dei prossimi mesi. Di sicuro come COBAS ci muoveremo in questa direzione nel percorso che ci porterà allo sciopero generale unitario del sindacalismo di base del 2 dicembre, la cui piattaforma andrà aggiornata alla luce delle decisioni che il governo prenderà, oltre a quelle nettamente negative già prese. Sciopero che, in base a quanto fin qui detto, dovrebbe estendersi a sciopero sociale, coinvolgendo movimenti ambientalisti, femministi, LGBTQ+, studenti e centri sociali.

Esecutivo nazionale Confederazione COBAS