LOTTA PACIFICA ED USO DELLA FORZA NELLA TRANSIZIONE

Forme della transizione. Il conflitto con il Potere e l’uso della forza. Praticare ciò che unisce.

(giugno 2011)

Forme della transizione

Qualsiasi punto di vista si abbia sulla transizione da un sistema economico-sociale ad un altro radicalmente diverso, si dovrà comunque convenire che tali processi, ovunque avvengano, sono e saranno inevitabilmente pieni di contraddizioni e di variegati mix di vecchio e nuovo. D’altra parte, a meno di ipotizzare progetti “putschisti” di insurrezioni improvvise che di punto in bianco e grazie alla presa del potere politico centrale sarebbero in grado di trasformare, miracolosamente e irreversibilmente, l’intera società e, a partire da una nazione, si estenderebbero poi d’incanto all’intero globo, dovrebbe essere evidente che tutte le trasformazioni auspicate non possono che passare attraverso una lunga gestazione e sperimentazione. Se ad esempio torniamo ad osservare quello che resta a tutt’oggi il più vasto e profondo tentativo di transizione al post-capitalismo – e cioè il “socialismo di Stato” in una ventina di paesi d’Europa e del mondo – malgrado io ne abbia scritto in vari saggi e libri tutto il male che occorreva, pur tuttavia va riconosciuto che almeno sulla carta il passaggio dalla proprietà privata dei capitali e dei mezzi di produzione ad una proprietà formalmente “collettiva” e statale poteva sembrare – ed apparve a molti/e per tanto tempo – il passo giusto per il trionfo dell’egualitarismo e della giustizia sociale ed economica. Non era stato previsto, però, che la “proprietà collettiva” si rivelasse un inganno mortale e che il capitale “pubblico” di Stato e i mezzi di produzione e di distribuzione venissero requisiti da una casta/classe organizzata in Partito che si arrogava il diritto di negare ogni libertà politica e sindacale a chiunque non fosse perfettamente in linea con le volontà del Partito-Stato, reprimendo con modalità sanguinarie ogni opposizione, anche di coloro che per il socialismo si erano battuti in prima fila. Se guardiamo ora da questo punto di vista, possiamo dire che tale transizione non ha fatto avvicinare l’umanità alla auspicata società post-capitalistica neanche di un passo. Anzi: praticando il disprezzo e la cancellazione della democrazia diretta e anche di quella delegata; frustrando e reprimendo ogni tentativo da parte di movimenti o organizzazioni o settori sociali di auto-emanciparsi, organizzarsi e rappresentarsi politicamente e sindacalmente; e per di più eliminando fisicamente un numero sterminato di oppositori politici ma anche di semplici cittadini che non sembravano collaborare con il “socialismo” trionfante, ha finito non solo per ri-accreditare la vecchia società – quantomeno più abile in genere a garantire alcune libertà formali e una democrazia di facciata – ma anche per screditare le idee stesse di socialismo e comunismo o comunque di superamento del sistema capitalistico di produzione.

Ciò non toglie però che in una prospettiva benicomunista  cioè indirizzata verso una società che garantisca la socializzazione e la democrazia partecipata nel decidere l’uso di ciò che la collettività organizzata consideri in una data fase Beni comuni  – l’eliminazione del possesso giuridico individuale di tali Beni comuni, ridotti a merce, sia obiettivo perseguibile su cui operare fin dai primi passi della transizione: e non mi riferisco solo alla scuola e alla sanità, ai trasporti e all’acqua, all’energia e all’ambiente e le risorse naturali, ma anche alle strutture industriali strategiche e fondamentali, nonché al capitale “pubblico” di Stato – oggi in mano teoricamente allo Stato, ma in concreto gestito per i propri interessi dai ceti/classi politici e burocratici – fino alle principali banche e imprese finanziarie.  Ed è per questo che un criterio-chiave per stabilire la qualità dei processi di transizione e il valore delle lotte è se tali percorsi sono ricercati, sostenuti e applicati il più possibile pure all’interno del quadro internazionale capitalistico, in conflitto con esso che costantemente cerca e cercherà di annullare o invertire il segno di tali esperienze. E, proprio per quanto detto in numerosi miei scritti (cfr. in particolare I disastri della statalizzazione totale e il benicomunismo) sulla differenza tra statalizzazione e socializzazione dei Beni comuni, il faro che dovrebbe guidare i processi di trasformazione/transizione verso il superamento del capitalismo non può che essere la reale partecipazione democratica alla messa in comune dei Beni e alla loro gestione effettiva. Togliere ad esempio l’acqua dalle mani dei privati e lasciarla poi in quelle di strutture statali, nazionali o locali, teoricamente “pubbliche” ma di fatto gestite dalla casta politica e burocratica a proprio uso e consumo e con criteri analogamente privatistici, non è un significativo passo in avanti, come i movimenti italiani che hanno vinto i referendum del giugno 2011 hanno dovuto verificare a proprie spese, dovendo proseguire – come se il risultato referendario fosse stato rimosso d’imperio dalla politica politicante dei funzionari del capitale di Stato – la lotta per evitare l’annullamento del corale pronunciamento nazionale a favore dell’acqua Bene pubblico e comune. Oltretutto, una impostazione che dia centralità nella gestione economica e sociale alla massima espressione democratica delle richieste e delle necessità dei vari strati popolari e lavorativi non è solo quella politicamente e moralmente più giusta, ma è anche l’unica che può risultare efficace per il funzionamento di società complesse post-capitalistiche che non abbiano più come stella polare il profitto e il mercato-jungla.

“Mentre il capitalismo ha a disposizione il mercato come luogo di misurazione dell’efficacia di questa o quella scelta produttiva, una società post-capitalista che togliesse al mercato il ruolo di arbitro supremo delle linee economiche ha l’esigenza di sostituirlo con qualcosa che non sia lo strapotere di un Partito-Stato il quale, nelle esperienze del ‘socialismo reale’, non ha fatto altro che decidere sulla base degli interessi sociali rappresentati nel Partito stesso. E’ solo con la più trasparente e piena rappresentanza dei bisogni e delle esigenze dei vari strati sociali – messe a confronto e anche in conflitto in maniera democratica in luoghi universali di gestione – che si può creare una base oggettiva per decidere cosa, come, dove e per chi la società deve produrre e distribuire i prodotti ai vari strati e ceti sociali” 1.

E sia dalle esperienze sociali in corso in America Latina sia dai tentativi di transizione “molecolare” dell’economia solidale e dell’agricoltura alternativa in Europa vengono interessanti segnali di sperimentazione che non vanno sottovalutati. Ho scritto (in particolare nel testo prima citato) che tra gli errori mortali dell’esperienza sovietica ci fu, oltre ovviamente alla cancellazione dei diritti democratici e alla sanguinosa repressione di ogni forma di opposizione e di struttura organizzata esterna ed estranea al Partito-Stato, la scelta della statalizzazione integrale, per nulla attenuata dai brevi ed incerti tentativi di concedere qua e là piccole autonomie produttive. L’idea totalitaria e soffocante di un controllo statuale onnipresente, dalla grande alla minuscola produzione, va a mio parere tolta di mezzo dal novero delle possibilità di funzionamento positivo di una nuova società: è un modello già dimostratosi abbondantemente dannoso, inefficiente, oppressivo e alla fin fine impraticabile. Ma se va lasciata libertà al piccolo commercio e alla produzione agricola indipendente, all’artigianato, alla ristorazione, alle arti e a vari mestieri e professioni – prevedendone ovviamente un’adeguata tassazione – è pur vero che tra grande produzione e distribuzione socializzate e piccola economia autonoma diverrà fondamentale trovare mediazioni e raccordi che evitino un conflitto permanente.

E’ per questo che trovo interessanti e degni di attenzione tutti quei tentativi di nuova economia che, seppur su piccola scala, non si limitano a mantenere e difendere per ognuno/a un ruolo sociale separato e distinto, ricercando solo la non-belligeranza (io piccolo produttore ti vendo al “giusto” prezzo il prodotto, tu cliente ti assicuri del valore dello stesso ma non metti bocca sul resto), ma cercano di costituire delle comunità, pur con numeri ridotti, ove tutti gli aspetti del ciclo economico, di produzione e consumo vengono analizzati, valutati e, nel limite del possibile, gestiti insieme. Sono esperimenti che potranno essere molto utili domani anche su scala più ampia, una volta che la società organizzata li favorirà e non li ostacolerà o attaccherà. Qualcosa del genere dovrebbe valere anche per l’intera gamma dei Beni comuni: e analoghe sperimentazioni andrebbero avviate pure negli altri settori. Per esempio non vedrei bene affatto, in una prospettiva benicomunista, una scuola gestita solo dai lavoratori/trici di quella scuola, un ospedale in mano ai soli medici ed infermieri o le ferrovie ai ferrovieri e l’acqua agli addetti ai lavori: una struttura così corporativizzata introdurrebbe magagne e forme corruttive assai probabilmente simili a quelle introdotte dalle borghesie di Stato e dalle caste politicanti attualmente. Ben diverso sarebbe avviare fin d’ora tentativi di gestione comune, seppur parziale, ad esempio di scuole ed ospedali con i lavoratori/trici delle rispettive strutture, affiancati però dai cittadini che di scuola e ospedale fanno uso in quel territorio e rappresentanti dei comitati sociali che operano nel comprensorio di quelle scuole e di quegli ospedali; e lo stesso dovrebbe valere per la gestione dell’acqua e dell’energia, per lo smaltimento dei rifiuti, per l’edilizia urbana e così via. E mi pare che in questi anni varie esperienze territoriali specifiche, che si sono battute contro dannose Grandi Opere e per la difesa dell’ambiente e di Beni comuni locali, hanno dimostrato che una gestione popolare democratica non è affatto caotica e dispersiva e che è in grado di raggiungere (vedi Val Di Susa o Movimenti per l’Acqua pubblica o contro le discariche e gli inceneritori o per l’energia pulita) una puntuale competenza specifica, in grado di ovviare ai danni degli “scienziati” comprati dalla logica del profitto e della mercificazione.

La partita della transizione si gioca sul terreno della creazione di una forma qualitativamente nuova di Stato sociale, globale e universale, che garantisca per tutti i cittadini/e servizi pubblici adeguati e gratuiti, un pacchetto di Beni pubblici collettivi indispensabili, la restituzione di quote rilevanti di ricchezza comune a tutti i settori più deboli (reddito sociale minimo per vivere, scuola, sanità e servizi essenziali gratuiti, cibo, acqua, casa garantiti a tutti/e)…Ma porsi l’obiettivo della globalizzazione dei diritti sociali basilari, significa l’opposto che difendere le strutture pubbliche di Stato così come sono oggi. Si tratta di trovare le vie per estendere e socializzare pienamente queste strutture, con la consapevolezza che il vero antidoto al ‘pubblico scialacquatore’ non è il privato, ma la massima democratizzazione di tutte le strutture che devono offrire servizi sociali e denaro collettivo. La vera socializzazione oggi pare questa: democrazia integrale nel ‘pubblico’, aumento vistoso degli investimenti in esso, elevata trasparenza e controllo organizzato da parte dei lavoratori coinvolti ma con la compartecipazione dei cittadini ‘utenti’: insomma, reali decisioni collettive in tutto lo spazio pubblico, con i rappresentanti dei differenti strati sociali subordinati, capaci di organizzarsi autonomamente e di concorrere con pari dignità (altro che Partiti e Sindacati Unici che interpretino per volere divino i bisogni di tutti/e) all’espressione delle volontà e delle decisioni collettive, non separando il livello politico da quello sindacale e sociale” 2. 

A questo che scrivevo una decina di anni fa, aggiungo che nella auspicata globalizzazione dei diritti sociali e dello spazio pubblico bisogna inserire ogni processo decisionale e di controllo per quel che riguarda l’uso del capitale “pubblico e collettivo” statale, sia nella versione finanziaria che industriale, nonché degli apparati produttivi strategici e del territorio, inteso come ambiente da salvaguardare e terra come Bene Comune da proteggere. E infine, ma non meno importante, prevedere una riduzione vistosa del lavoro necessario e socialmente utile, e la sua redistribuzione generalizzata come processo necessario durante la transizione e non solo a conclusione di essa: non prevedeva Keynes, che entro un secolo (lo scriveva nel 1929) sarebbero bastate tre ore al giorno per ognuno/a al fine di garantire il buon funzionamento della “macchina” produttiva?

Il conflitto con il Potere e l’uso della forza

Dunque, se di tutto questo si tratta, è pensabile che questo complesso e sconvolgente (per il capitalismo, per il profitto individuale, per la mercificazione globale) processo di transizione/trasformazione possa evitare lo scontro frontale con i poteri esistenti? E se tale scontro è ritenuto inevitabile, come ci si deve preparare ad affrontarlo? Con modalità comunque pacifiche o mettendo in conto anche l’uso programmato e organizzato della forza? In linea di massima alcune risposte potrebbero apparire scontate. Nessuna classe dominante e nessun Potere forte hanno mai accettato di perdere il loro ruolo e i loro beni senza battersi con i mezzi che avevano a disposizione, non escludendo alcuna forma di violenza, repressione o sopraffazione: quindi, conseguentemente, chiunque (organizzazione, movimento, classe o ceto, settore sociale ecc.) voglia portare la transizione alle sue logiche conseguenze – rivoluzionando l’esistente e realizzando una società  basata sulla gestione socializzata dei Beni, dei capitali e delle ricchezze comuni – non può non mettere in conto la  necessità di utilizzare anche la forza, non fosse altro che come forma di autodifesa, nel corso di tale processo. Ciò premesso, bisogna però trarre sia dalle esperienze rivoluzionarie del Novecento – a partire da quella sovietica che ha fatto uso di una violenza spietata, prolungata e terrorizzante – sia dai risultati finali del “socialismo reale”, sia dai processi di tentata transizione nei paesi dell’America Latina di quest’ultimo decennio, alcune considerazioni più complesse e articolate.

Innanzitutto, quanto detto nei capitoli precedenti dovrebbe portare alla convinzione che oggi sia insensato e deleterio progettare profonde e rivoluzionarie trasformazioni sociali ed economiche che si basino principalmente su azioni insurrezionali/putschiste di avanguardie circoscritte, per quanto abilmente organizzate. Se si punta a creare un nuovo sistema di vita – l’altro mondo possibile invocato ripetutamente nell’ultimo decennio dai movimenti altermondialisti – basato sulla giustizia sociale, economica e ambientale e su una democrazia massimamente partecipata e diffusa, il suo raggiungimento può avere successo solo se fondato sul più largo e profondo consenso sociale di larghe maggioranze della popolazione. Dunque, il modello della rivoluzione dall’alto, imposto da avanguardie compatte e motivate, che piegano poi la grande maggioranza delle popolazioni ai loro voleri e ai loro schemi di funzionamento sociale eliminando il dissenso con la repressione, dovrebbe essere bandito dai nostri orizzonti.

Pur tuttavia, neanche un processo rivoluzionario basato sul più largo consenso popolare può escludere di trovarsi di fronte una reazione violenta da parte dei poteri messi in discussione. Anzi: se guardiamo alla storia dei grandi movimenti di massa del secolo scorso in Occidente abbiamo abbondanti verifiche del fatto che, mentre questi ultimi, almeno fintanto che si esprimevano nella forma di Stato nascente, non erano violenti e quasi mai esordivano facendo uso della forza se non in forme tutto sommato blande e comprensibili, è stato sempre il Potere a reagire violentemente nei loro confronti. Osservando i conflitti tra il Sistema e i movimenti sociali di massa – in particolare quelli di tipo nuovo apparsi dal 1968 in poi – balzano agli occhi alcune invarianti: mentre il Potere ha difficoltà a mascherare la sua natura aggressiva e finisce per metterla in evidenza appena la ribellione sociale non appare domabile con i mass media e le blandizie, i movimenti nascenti in genere non esibiscono la forza o la violenza come tratti distintivi. E non tanto per pacifismo o illusioni sulla natura dei poteri dominanti, ma perché sono solitamente concentrati sulla propria autorealizzazione, sulla esibizione di sé in senso politico, e cioè sulla messa in mostra e sulla scoperta delle proprie potenzialità e capacità di intervento sulla realtà, nonché sulla espansione della propria sfera di azione. Anche per questo i movimenti sono esattamente l’opposto delle forme di brigatismo armato, del violentismo come programma minoritario, politicista e avanguardista, che come principale manifestazione di sé prevede l’aggressione del nemico e l’esibizione della propria presunta forza militare, e che inevitabilmente ottiene i risultati di rafforzare l’avversario e di disgregare e intimidire i movimenti di massa. 

Le numerose esperienze del passato – anche di quello più recente, si pensi a Genova 2001 – dimostrano che ogni qualvolta significativi movimenti sociali e lotte popolari di massa mettono in discussione i poteri esistenti, questi ultimi cercano di cancellarne e farne tacere l’autonomia e la contestazione del quadro dominante, usando anche mezzi violenti pur di riportare alla frammentazione e all’insignificanza la rivolta sociale. Di solito, di fronte a queste modalità di annientamento, i movimenti e i soggetti rivoltosi hanno avuto tre alternative: a) sottomettersi alla potenza dell’Autorità e ritirarsi dal conflitto, in particolare quando il tasso di violenza esposto risultava superiore a quanto le forze nascenti erano in grado di sopportare; b) rifluire come movimenti di massa, ma supportare in qualche modo iniziative di rivalsa violenta e armata affidate a minoranze più o meno clandestine che comunque, come nella prima ipotesi, hanno finito sempre per tacitare e annullare la rivolta come evento di massa; c) rispondere alla violenza di Sistema garantendo comunque un proprio spazio di massa, con strumenti pacifici ma anche con l’uso intelligente e originale di una forza condivisa, facendo divenire nuova legalità costituente ciò che il Sistema vorrebbe considerare e sanzionare come illegalità e crimine.

In genere il Potere (o i Poteri) auspica la prima alternativa, sopporta agevolmente la seconda e anzi la usa per rafforzarsi e per sconsigliare qualsiasi forma di ribellione di massa (“Si comincia con la contestazione studentesca nelle Università del ’68 e inevitabilmente si finisce con il terrorismo delle Brigate Rosse”: questo è il mantra del Potere italiano da una trentina di anni), mentre si trova in difficoltà davanti alla terza opzione, quando cioè i movimenti e le forme di ribellione vengono percepite come un anti-Stato nascente ma – per il consenso maggioritario che hanno e per l’abilità nel mixare strumenti pacifici di allargamento progressivo del movimento con contenute e ben guidate dimostrazioni di una forza comprensibile e giustificabile a livello popolare – il Sistema, pur voglioso di eliminare tale forma embrionale di dualismo di poteri, trova grandi difficoltà ad incrudire le forme repressive per disperdere i movimenti, le ribellioni organizzate e i suoi protagonisti. Bisogna riconoscere però che, almeno in Europa, la terza opzione raramente è stata messa in atto dai movimenti, che ben poche volte sono giunti a tale maturità complessiva, a differenza di quanto invece è accaduto per tanti movimenti latinoamericani nell’ultimo decennio, forse anche perché dolorosamente ammaestrati dalle catastrofiche sconfitte dei gruppi guerriglieri e insurrezionalisti del secolo scorso.

Durante l’ultimo decennio, nei confronti dei movimenti popolari che in America Latina hanno portato alla guida degli Stati forze progressiste – dal Venezuela alla Bolivia, dall’Ecuador allo stesso Brasile e all’Argentina, per quanto possano essere criticabili i governi di Lula-Roussef e quelli della famiglia Kirchner – i poteri pre-esistenti locali e quello statunitense non sono riusciti ad usare la violenza per fermare le trasformazioni in atto. Laddove lo hanno tentato – golpe in Venezuela, mini-golpe in Ecuador, rivolte secessioniste in Bolivia – il naufragio golpista è stato lampante, a causa della discesa in campo di milioni di persone a fianco dei governi legittimi. I quali, peraltro, superando in positivo tutte le motivazioni (il blocco economico, i ripetuti tentativi golpisti statunitensi, l’opposizione finanziata dall’imperialismo USA ecc.) che ad esempio a Cuba ancora vengono usate per giustificare il monopolio del potere da parte del castrismo, hanno confermato ripetutamente la propria egemonia politica, consentendo e vincendo regolarmente libere elezioni e offrendo la massima libertà – malgrado sia stata usata ripetutamente per infangare in ogni modo i governi progressisti e le forze sociali della trasformazione – ai mezzi di disinformazione televisivi, radiofonici e della carta stampata in mano all’80% a forze padronali e antipopolari.

Dunque, almeno fino ad ora, in varie circostanze e situazioni nazionali non è stato necessario far uso della forza per difendere i risultati di trasformazioni e transizioni avviate in direzione non capitalista. Ma se, di conseguenza, non va stabilita una dipendenza stretta e obbligata tra l’inevitabilità dell’uso della forza per difendere le trasformazioni e la profondità dei mutamenti che puntano all’uscita dal dominio del Capitale e della merce, è altrettanto da evitare l’argomentazione opposta, assai diffusa in Europa e in Italia negli ultimi anni intorno ai movimenti e ai conflitti sociali, che ha riproposto in salsa neo-gandhiana (forzando anche il pensiero di Gandhi che in realtà non escludeva l’uso della forza in condizioni particolari) una integrale non-violenza con accenti quasi pavloviani3. Argomentazione in base alla quale l’uso della forza – chiamata sempre “violenza” nella terminologia unilaterale del pacifismo integralista – in qualsiasi circostanza e fase storica, e fosse anche a carattere episodico, squalificherebbe di per sé e condannerebbe alla sconfitta ogni processo di trasformazione e transizione verso una società migliore. Secondo tale lettura pavloviana dell’uso della forza/violenza, una volta che la si esercita nel conflitto sociale poi, come il famoso cane dell’esperimento di Pavlov, ci si abitua e la si continua ad esercitare automaticamente sulla base di stimoli ripetitivi e si finisce per degenerare personalmente e collettivamente. Cosicché, se tale uso venisse compiuto in un processo rivoluzionario o di trasformazione sociale profonda che desse alfine accesso al potere, questo verrebbe esercitato dai nuovi governanti, per coazione a ripetere, in maniera violenta e repressiva.

Tesi del genere equivalgono a dire che chi ruba o uccide una volta, indipendentemente dalle cause magari estreme che ve lo hanno condotto, sia destinato a rubare e ad uccidere programmaticamente nel suo futuro, introducendo persino una inquietante traccia lombrosiana4 di una sorta di predisposizione genetica e caratteriale alla violenza e alla sopraffazione. L’esperienza storica nega ogni automatismo del genere. Basterebbe ricordare la Resistenza italiana che fece abbondantemente uso della forza militare senza che poi – una volta terminata la guerra, sconfitto il fascismo e instaurata la Repubblica – gli ex-partigiani dessero l’assalto al Parlamento, modello Rivoluzione bolscevica, o cercassero di imporre il dominio “rosso” con la forza: e questo malgrado buona parte degli ideali e dei programmi della Resistenza venissero ignorati e vilipesi nel dopo-guerra e gli stessi fascisti se la cavassero di lusso grazie al tradizionale trasformismo gattopardesco italico. Per certi versi le tesi sulla non-violenza integrale e assolutizzata – quelle cioè che escludono in ogni circostanza la possibilità di fare ricorso alla forza da parte dei movimenti, delle rivolte e delle rivoluzioni, anche solo come strumento di autodifesa –mi sembrano speculari a quello che in scritti precedenti ho chiamato il cretinismo forzuto che negli anni ’60 e ’70 ebbe larga diffusione nei nuovi movimenti e che coinvolse un po’ tutti noi protagonisti di tali processi rivoltosi. Allora, soprattutto di fronte all’impasse nell’ottenere risultati e allargare il consenso, si diffuse un senso comune in base al quale una lotta o una rivolta popolare erano tanto più significative e radicali quanto più facevano uso della forza.

Tale convinzione negli ultimi decenni si è indebolita assai ma in qualche modo è stata sostituita da una forma di dogmatismo e irrazionalità ultra-pacifista in base ai quali, ovunque e comunque, anche nelle circostanze più brutalmente oppressive e dittatoriali o nelle invasioni militari di paesi sovrani o nei casi di feroce aggressione di piazza ai movimenti di rivolta, la resistenza e la protesta dovrebbero assumere sempre modalità pacifiche (lo si è sostenuto seriamente sia nel caso dell’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq sia nei confronti delle manifestazioni del luglio 2001 a Genova, malgrado l’aggressione inusitata degli apparati polizieschi). Tali posizioni sono peraltro lontane anni-luce dalla esperienza quotidiana di ognuno/a di noi, indipendentemente dai ruoli e dalle posizioni politiche: chi mai, aggredito inopinatamente per strada da uno sconosciuto fuori di sé e non disposto a ragionare in alcun modo, rinuncerebbe a difendersi se fosse fisicamente in grado di farlo e si lascerebbe pestare serenamente pur di non violare il principio della non-violenza?

Oltretutto, un certo estremismo pacifista si è presentato, ad esempio nei confronti del movimento no-global italiano, con forme di integralismo così inusitate e assai poco “pacifiche” da riuscire a mettere a disagio e in difficoltà persino esponenti di tale movimento che sul tema delle modalità  di lotta pensavano di non dover ricevere lezioni da nessuno, essendosi esposti/e (per portare soccorsi, viveri e medicine) in forme del tutto disarmate persino in pericolosi teatri di guerra come quelli della Jugoslavia lacerata dalle guerre etniche, dell’Iraq occupato o della Palestina colpita dagli israeliani. Per tutti/e valga la risposta che Raffaella Bolini, spazientita per l’ossessivo tambureggiare sul tema non-violenza di quegli anni, dette ad Alex Zanotelli che, seppure in buona fede, continuava a battere su tale tasto come discrimine decisivo per i movimenti, e in particolare per quello no-global malgrado quest’ultimo avesse dato ampia prova di enorme moderazione e autocontrollo nel non replicare alla violenza poliziesca e statuale.

Perché Zanotelli insiste con questa storia che il movimento deve fare i conti con la violenza? Il 21 luglio del 2001 si è avuta una delle più alte prove di resistenza democratica mai viste in questo paese. E se la democrazia è un bene supremo, Genova 2001 va messa a merito di questo movimento, sul piatto buono della bilancia…Trovatelo un movimento così composito e così pieno di radicalità, così giovane e pieno di giovani che reagisce con così tanta civiltà a una violenza così tremenda e inaspettata. Che non tira una pietra sola nelle centinaia di manifestazioni nei drammatici giorni successivi. E poi per un anno intero di manifestazioni enormi. Un movimento che nel primo anniversario dell’uccisione di Carlo Giuliani applaude per dieci minuti di fila, la testa in aria a guardare palloncini che volano in cielo. Tutte le aree del movimento hanno scelto di non reagire con la violenza alla violenza, di con cadere nella trappola. E’ una scelta che per ora tiene. E’ il necessario collante che ci permette di andare avanti insieme. E ognuno è responsabile di sé. Sulle strade che camminiamo insieme si arriva da storie tanto diverse. Zanotelli chiede di giurare sulla nonviolenza gandhiana. Io non giuro sulle Bibbie degli altri, e tendenzialmente non chiedo a nessuno di giurare sulla mia. Mi pare poco nonviolento. A me piace Capitini, quando diceva che il nonviolento cerca la verità nel più lontano da sé” 5.

Ma se si doveva credere alla buona fede di Zanotelli, non altrettanto valse qualche tempo dopo quando il segretario del PRC Bertinotti usò un analogo integralismo pacifista per aprire, a partire dall’estate 2004, uno scontro all’interno del movimento altermondialista italiano e preparare il terreno per il rientro del suo partito nell’alveo del centrosinistra istituzionale, offrendo come pegno della ri-conversione le “teste” delle componenti più radicali no-global e dei movimenti di lotta dell’epoca. All’integralismo non-violento si aggiunse la funesta tesi della cosiddetta spirale guerra-terrorismo che schiacciava sul secondo termine più o meno tutte le resistenze armate in corso nei paesi occupati dall’imperialismo statunitense e dai suoi alleati, mescolando in un unico calderone Al Qaeda e la resistenza palestinese, t talebani e i combattenti iracheni. E soprattutto cancellando l’indubitabile realtà di due invasioni di paesi sovrani – Afghanistan e Iraq – che nessuno era riuscito ad ostacolare o contestare in loco per via pacifica e che solo la risposta armata aveva davvero messo alla frusta, ponendo tutto il mondo di fronte alla realtà di una doppia, intollerabile e sanguinosa occupazione militare, finalizzata al controllo delle risorse energetiche basilari dell’area e che nulla aveva a che fare con missioni “umanitarie” o con il ripristino, per esportazione, della democrazia.

Pur tuttavia, fermo restando che nei casi citati – come in passato per la Resistenza antinazista, per quella algerina, vietnamita e varie altre – non esistevano spazi reali per fermare o sconfiggere gli aggressori per via pacifica, mi sembra fuori di dubbio che in generale la lotta pacifica, quando è possibile svilupparla, è certamente la modalità che più consente di avere a favore dei processi di trasformazione il più ampio fronte di alleanze: e che l’uso della forza e della violenza, sia di piazza sia a carattere esplicitamente militare, riduce di solito la partecipazione, rende più complicato tenere assieme un vasto blocco sociale unitario e si scontra con la riluttanza diffusa a livello di massa – salvo in circostanze estreme e particolari – a mettere in conto anche il sacrificio della propria incolumità, o addirittura della vita stessa, per raggiungere l’obiettivo rivoluzionario o trasformativo auspicato. Quindi, in linea di massima direi che la scelta di strumenti pacifici, fin tanto che esista lo spazio per il loro uso, è quella che più favorisce i movimenti rivoltosi e rivoluzionari, la loro estensione, il consenso diffuso, la più larga unità sociale in essi: ma, in particolari circostanze, una autodifesa dei propri diritti e dei processi di trasformazione che faccia anche uso della forza in risposta ad un’aggressione armata non può essere scartata. Credo non ci siano dubbi sul fatto che se, ad esempio, nei confronti dei governi progressisti dell’America Latina, si dovessero sviluppare attacchi armati, esogeni o formalmente endogeni, l’uso della forza come strumento difensivo da parte di quei governi e dei movimenti che li appoggiano molto probabilmente non dividerebbe un fronte popolare nazionale e internazionale in loro sostegno, ma anzi troverebbe presumibilmente un ampio consenso globale da parte delle forze della trasformazione.

E’ pur vero però che le risposte finora date alle aggressioni già avvenute e ai tentativi golpisti o secessionisti, anche armati, in Venezuela, Ecuador e Bolivia (e persino in Honduras ove però il golpismo ha avuto finora successo con la destituzione del legittimo presidente Zelaya) sono state sostanzialmente pacifiche e si sono avvalse del deterrente formidabile di mobilitazioni popolari considerevoli, accompagnate da un generale mutamento di clima, antiliberista, antimperialista e antigolpista, della maggioranza degli Stati e dei governi latinoamericani. E c’è un fattore supplementare che deve indurre ad una ulteriore riflessione sul tema degli strumenti da usare in un processo di transizione. In questi anni i governi dei paesi citati hanno messo in gioco i successi ottenuti e le trasformazioni effettuate, o consentite e agevolate, in regolari e libere elezioni universali: essi cioè hanno messo in conto anche la possibilità di un’interruzione momentanea, o almeno di un rallentamento, del cammino della transizione nel caso di vittoria elettorale dei suoi avversari. Hanno cioè espresso una grande fiducia nei movimenti e nella capacità dei settori popolari di difendere le conquiste ottenute e di continuare ad avanzare sul percorso del cambiamento, affidando ad essi e non tanto alla forza armata la custodia e le scelte sul processo avviato, anche in caso di momentanee sconfitte elettorali e cambi di governo.

Mi pare che dietro questo condivisibile atteggiamento generale ci sia la convinzione che il superamento del capitalismo non possa essere messo in atto solo da minoranze o avanguardie agguerrite ma che, proprio perché richiede mutamenti enormi dell’intero sistema di vita e anche contraddizioni vivaci pure all’interno dell’alleanza sociale che li desidera, esiga in ogni passaggio il massimo consenso e partecipazione popolare. E c’è anche, forse, una visione giustamente articolata della complessità del processo di transizione mondiale oltre il capitalismo, verso il “socialismo del XXI secolo” o il benicomunismo, che dir si vogliano. Pure nel precedente processo di transizione dalla società feudale a quella borghese, l’altalena di successi e sconfitte, avanzamenti e arretramenti della nuova classe emergente e della sua forma produttiva, è durata secoli, passando da momenti di apparente definitivo trionfo – come ad esempio la Rivoluzione francese o analoghe di minore portata universale ma pur tuttavia incisive nei singoli paesi – a vere e proprie ritirate strategiche durate decenni. Immagino che anche per l’attuale cammino di transizione e di mutamento dell’esistente dovremo passare per una analoga alternanza di passi avanti e indietro, successi e sconfitte: durante i quali, però, la bussola dovrebbe essere sempre quella dell’allargamento delle alleanze anticapitalistiche, del fronte più unitario e ampio possibile e soprattutto della ricerca del più vasto consenso – seppur attraverso contraddizioni, contrasti e anche conflitti “in seno al popolo”- verso la trasformazione: consenso da raggiungere e mantenere non con la forza e la coercizione o la sottrazione estesa di diritti e libertà, ma nella più ampia e partecipata democrazia e con strumenti di comprensione e di mediazione sociale.

Praticare ciò che unisce

Credo che il giorno più bello della mia vita politica sia stato il 1° marzo 1968. Quella mattina a Roma, davanti alla facoltà di Architettura di Valle Giulia, vedemmo per la prima volta la schiena dei poliziotti, i quali, dopo averci caricato a freddo, scappavano e risalivano affannosamente la collinetta e le scalinate della facoltà. Non eravamo più noi a dover fuggire inseguiti dalla violenza della polizia o dei carabinieri: finalmente, dopo anni di soprusi, le arroganze del Potere, seppur per un istante, venivano piegate dalle ragioni di un movimento libertario. Sono ancora più certo di quale sia stato, invece, il giorno più brutto: il 9 maggio 1978, data dell’uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. Quel giorno, tutti coloro che in Italia, da sinistra, si erano battuti per anni contro il potere economico e politico, dovettero prendere atto con dolore immenso che il ‘decennio rosso’ veniva tragicamente sconfitto e che si aprivano anni davvero bui, amari e pesanti

per l’anticapitalismo italiano” 6.

A distanza di circa quindici anni da quando scrissi queste parole, oggi non direi più che il giorno della battaglia di Valle Giulia sia stato il “più bello della mia vita politica”, perché da allora, per fortuna, ne sono arrivati altri di giorni e di episodi politicamente entusiasmanti, soprattutto in giro per il mondo con i movimenti altermondialisti: mentre sul giorno più brutto non ho cambiato idea. Riporto però qui tale mia personale confidenza di anni fa perché penso che possa essere utile per integrare quanto scritto fino ad ora e arrivare ad una generale conclusione, quanto più possibile dialettica, duttile ed aperta sul tema del conflitto con il Potere (o i Poteri) e sull’uso eventuale della forza. Credo, infatti, che la mia riflessione sentimentale su due momenti rilevanti della mia (e altrui) vita politica in Italia racconti, e contribuisca a sottolineare, come episodi di uso della forza da parte di un movimento di massa o di spietata violenza politica da parte di un gruppo avanguardista abbiano potuto provocare effetti opposti in me – ma presumo anche in moltissimi/e altri – non tanto per il diverso grado di esercizio della “potenza” fisica, ma per le modalità radicalmente divergenti con le quali le due azioni vennero percepite dai movimenti rivoltosi e rivoluzionari dell’epoca. Mentre la “battaglia di Valle Giulia” unì ulteriormente il movimento studentesco del ’68 e lo convinse della propria forza e delle proprie ragioni, in quanto decisa reazione di massa ad una stolta aggressione di un potere ottuso che del movimento non aveva ancora capito niente, gli omicidi brigatisti, che pure uccidevano. dopo gli uomini della scorta, uno dei massimi esponenti dell’odiato potere istituzionale dell’epoca, non solo divise irrimediabilmente le aree rivoltose e conflittuali in campo, ma ne convinse la stragrande maggioranza dell’impossibilità di sostenere quel livello di scontro, portando allo sfaldamento del lascito di un intero decennio di ribellioni e opposizioni.

Di confronti del genere se ne potrebbero fare un’infinità. Ma tutti ci avvicinerebbero a una possibile conclusione, seppure aperta a successive e magari più illuminanti esperienze. La violenza e l’uso della forza non possono essere lo strumento quotidiano e permanente di un movimento di lotta, né di una rivolta né tantomeno, a più largo raggio, di un processo di transizione e di trasformazione rivoluzionaria, se di tali mutamenti abbiamo una visione corretta nel senso della loro complessità, durata, estensione e anche contraddittorietà persino all’interno del fronte o dell’Alleanza che li provoca e li difende. L’intero processo di transizione deve avere come obiettivo la sostituzione di un ordine ingiusto con l’altro mondo indispensabile basato – che lo si chiami socialismo di questo secolo o benicomunismo o in qualsiasi altro modo compatibile – sull’eguaglianza dei diritti e dei doveri, sulla reale democrazia partecipata e diffusa e non consegnata nelle mani dei politicanti di professione, sulla fine dello sfruttamento e della mercificazione di persone, cose e natura ma anche sulla cancellazione, per quanto possibile, o significativa riduzione della violenza in tutte le sue forme, dalla repressione politica e sociale alla guerra. Dunque, un movimento di trasformazione non può caratterizzarsi per la sua violenza. Però l’uso della forza – da usare comunque sempre consapevoli dei suoi risvolti negativi e della profonda dannosità di ogni suo abuso – può essere una inevitabile necessità laddove il Sistema voglia impedire, con l’aggressione al processo di trasformazione, di realizzare ciò che la vasta maggioranza della popolazione intende perseguire pacificamente. Tale prassi, però, deve apparire, in primo luogo agli occhi dei protagonisti del cambiamento, una forma ineludibile di autodifesa, deve essere prevalentemente difensiva, evitare ogni eccesso e ogni forma di estetica forzuta o di compiacimento dannunziano per la violenza: e tale scelta, comunque delicata, deve passare al vaglio del controllo e del consenso di massa e degli organismi democratici operanti, ai quali spetta valutare se e quanto ogni atto di forza allarghi o restringa le potenzialità del processo di cambiamento, rifiutando comunque l’uso della violenza e della repressione come programma, cosa avvenuta tragicamente ad esempio nei decenni di affermazione del potere staliniano e del Partito-Stato “comunista” in Unione Sovietica.

Quanto tutto ciò sia essenziale per il buon fine dei progetti di trasformazione sociale me lo hanno confermato molti decenni di partecipazione a innumerevoli movimenti antagonisti o anticapitalisti. Laddove, fin dal ’68 ho imparato che i lavoratori/trici e i settori popolari più ampi, mentre sono disposti a ribellarsi anche con l’uso della forza per difendere diritti acquisiti o per estenderli, attraverso forme di autodifesa e anche di offesa di massa (scioperi illegali, picchetti duri, forte contrasto con crumiri, occupazioni di case e di fabbriche, blocco delle merci, manifestazioni decise ed autotutelate, scontri con la polizia ecc.), non hanno mai dimostrato, almeno nella mia non breve e non circoscritta esperienza, una particolare simpatia per il gesto estetico, esemplare, per la violenza come espressione teatrale per dimostrare la propria alterità. Quella “teatralità” che, nelle fasi di decadenza dei movimenti del “decennio rosso” portarono ad esempio ad una truce sloganistica7  nelle manifestazioni di piazza e ad un autocompiacimento verbale, quasi maniacale, di quanto si fosse duri (e di conseguenza massimamente di sinistra) nei confronti dei fascisti, di polizia e carabinieri. Il modo di vedere l’uso della forza da parte dei settori popolari, insomma, era ed è, mi pare, ad ogni latitudine quello di chi lo ritiene in certe fasi di conflitto aspro e radicale un concreto strumento per raggiungere o difendere altrettanto concreti obiettivi, realizzati i quali il gesto violento o forzuto non può e non deve essere insensatamente reiterato. Ed è anche per ricordare questa che a me pare una profonda verità che ho qui riportato anche i miei sentimenti all’indomani dell’uccisione di Aldo Moro e degli uomini della sua scorta che segnava la fine dei movimenti di massa come li avevamo vissuti nel decennio precedente, aprendo un oscuro tunnel da cui saremmo usciti solo dopo un altro decennio, una volta che gli apparati repressivi di Stato ebbero eliminato brutalmente quel brigatismo distruttivo, scervellato e megalomane al tempo stesso, che tanto aveva fatto comodo per riciclare i vecchi poteri screditati e messi alla berlina a partire dal ‘68.

Quando la tragicità della situazione, dopo l’uccisione di Moro, tolse a tutti la voglia di giocare con gli slogan trucidi, con le dita che mimavano le pistole, con gli esibizionismi verbali – pur sempre altra cosa dalla realtà, il buon vecchio ‘tra il dire e il fare…’ – ; quando il fumo ideologico si diradò e tutti furono in grado di guardare lucidamente lo scontro assolutamente impari che si apriva tra gli ‘opposti terrorismi’ dello Stato e delle Brigate Rosse, allora la matrice sana del ’68, dei movimenti, della linea di massa, prevalse alla grande. E delle centinaia di migliaia di militanti coinvolti nei movimenti e nei gruppi della Nuova Sinistra in quegli anni, sì e no l’1% decise di suicidarsi politicamente e, purtroppo per alcuni, anche fisicamente. Gli altri, il 99%, cercarono  percorsi per far ‘passa’ a nuttata’: oppure, in buon ordine, si ritirarono nella penombra” 8.

Quindi, volendo cercare una sintesi o un duttile criterio-guida, potrei dire che vale per l’uso della forza e per le forme di conflitto con il Potere o con i Poteri quanto vale in generale nei processi di trasformazione: praticare ciò che unisce, escludere ciò che divide; usare ciò che potenzia le forze del cambiamento, la loro alleanza, la loro originale democrazia e ciò che al contempo introduce divisione o sbandamento tra le fila degli avversari; evitare accuratamente ciò che provoca l’effetto contrario, non dimenticando mai la sproporzione di forza militare e materiale a disposizione di tutti i poteri costituiti che hanno dalla loro secoli di esperienza e di pratica nell’uso della forza e della violenza. Che poi gli insegnamenti del passato di rado vengano buoni davvero per il presente e per il futuro, mi è chiaro. Ma d’altra parte questo è ciò che spetta alla analisi politica se si vuole cambiare la società con l’ambizione (o la presunzione?) che questa sia anche scelta di vita: delineare, descrivere e diffondere il più possibile quanto si ritiene che servirebbe nel percorso verso l’altro mondo indispensabile. Poi tra il dire e il fare….

NOTE

1  Piero Bernocchi, Vogliamo un altro mondo, Datanews, Roma 2008, pp.143-4.

2  P. Bernocchi, in Un altro mondo in costruzione, AA.VV. , Baldini&Castoldi, Milano 2002, pp. 61-65.

3  Nel senso – riprendendo gli esperimenti di Pavlov e le sue conclusioni teoriche – di reazione automatica a stimoli indotti più volte nella stessa forma, con una coazione a ripetere di pensieri e azioni che escluda, o renda assai difficile, modalità di libera e diversa scelta razionale. Ivan Petrovic Pavlov (1849-1936), fisiologo e medico russo, deve la sua fama soprattutto alla scoperta del riflesso condizionato, e cioè del nesso che si instaura quando uno stimolo neutro diventa un segnale per un altro evento che ancora si deve verificare, creando un’associazione automatica tra i due. L’esperimento più noto fu quello del “cane di Pavlov”, consistente nel far anticipare il suono di un campanello alla somministrazione di cibo ad un cane. Dopo una serie di tali condizionamenti, il cane iniziava la secrezione salivare al solo sentire il suono del campanello.

4  Cesare Lombroso (1835-1909) è considerato un pioniere degli studi sull’antropologia criminale, malgrado le sue teorie oggi siano totalmente screditate. A suo avviso i criminali avrebbero caratteristiche fisiche diverse dall’uomo “normale”, con anomalie e atavismi corporali che ne spiegherebbero i comportamenti.

5  Raffaella Bolini, Violenza e non-violenza, Micromega n.1, 2003.

6  P. Bernocchi  Per una critica del ’68, Massari Editore, Bolsena 1998, pag.128.

7  Nel mio Dal ’77 in poi, Massari Editore, Bolsena 1997, ho fatto un elenco dei più paranoici e truculenti tra quegli slogan che, per carità di patria, non starò qui a ripetere.

8  P. Bernocchi, Per una critica del ’68, op. cit. pp. 140-1.