NATURALMENTE COMUNISTI?

Le conseguenze politiche di tre diverse visioni della natura umana
(luglio 2014)
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Per un ulteriore approfondimento – rispetto al mio La natura umana e l’egoismo altruista – dei temi legati all’intreccio tra azione politica e comportamento umano, mi servirò di un dialogo a distanza con un testo dal titolo emblematico, Naturalmente comunisti, e con il suo autore, Felice Cimatti, linguista legato all’impostazione di Noam Chomsky, che insegna Filosofia del linguaggio all’Università della Calabria. Su che genere di comunista sia Cimatti, tornerò più avanti perché non è un elemento decisivo nel dialogo critico che avvierò con il suo scritto che, fin dal titolo, si propone di dimostrare la naturale propensione degli umani alla socializzazione, alla vita comunitaria e, per estensione, ad una società che elimini la proprietà privata e “comunistizzi” le strutture economiche e politiche. Nella diatriba tra natura umana determinata culturalmente o biologicamente, Cimatti propende nettamente per la prima tesi.

«Esiste un modo “naturale” di vivere per gli esseri umani? Il libro nasce da questa domanda e prova a rispondere in modo affermativo. Sì, c’è una vita naturale per l’umano, e non è quella che sta attualmente vivendo. La tesi di questo libro è che la vita sotto il sistema economico-sociale chiamato capitalismo è una vita innaturale, che molto poco si adatta alla nostra natura biologica. Per questa ragione è un sistema che deve essere abbandonato. E può essere abbandonato perché, diversamente dai disfattisti secondo i quali è l’unico modo di vivere, una vita diversa, e migliore, è a nostra disposizione. La vita naturale, al contrario, è quella che Karl Marx chiama “comunismo”. La tesi consapevolmente inattuale del presente volume è che il comunismo è il modo di vivere che meglio realizza le potenzialità biologiche, naturali, della specie umana, mentre il capitalismo, all’opposto, è quello che più le umilia e deprime, con la prospettiva finale di annientarle»1.

Certo, può stupire chi legge il libro di Cimatti il fatto che l’autore parli di comunismo come se fosse un contemporaneo di Marx, nutrendo, malgrado le clamorose smentite storiche novecentesche, la stessa fideistica certezza nel potere palingenetico, di per sé, dell’abolizione della proprietà privata: perché nel testo non c’è neanche una riga di spiegazione del fallimento dei tentativi novecenteschi di introdurre il comunismo reale  in decine di paesi del mondo. O meglio: una riga c’è, ma è nell’ultima pagina di copertina, quella riempita dall’editore, laddove si legge: «Il disastro umano e storico del comunismo reale, finito con la caduta del Muro di Berlino, ha fatto credere a molti che il capitalismo fosse non soltanto il modello economico vincente, ma addirittura l’unico possibile e naturale». Ma poi, in tutto il libro al «disastro umano e storico» non si fa il minimo accenno né si tenta un’interpretazione di esso in sintonia con la tesi che l’abolizione della proprietà privata sia la carta decisiva per far emergere la parte buona e naturale degli umani.

Visto come ho trattato, sia in Benicomunismo2 sia in vari altri scritti, l’idealismo del Marx politico – e la tetragona ripetizione da parte del comunismo novecentesco di mantra che sfuggono a qualsiasi spiegazione del suddetto “disastro” e del trionfo dello stalinismo, e che evitano una seria riflessione sulle vie da seguire per non ripeterlo – ci si può domandare il perché di questo mio dialogo critico con il testo di Cimatti. Gli è che l’autore presenta, in maniera articolata e dettagliata, un’esauriente antologia dei tanti topoi, dei “luoghi” permanenti di una visione buonista e idealista degli umani che ha imperversato per lunghissimo tempo nell’elaborazione teorica e politica marxista. E ad esempio, la incrollabile convinzione che traspare dal brano appena citato: il capitalismo sarebbe un sistema “innaturale” estraneo alla “natura biologica” umana, all’opposto del comunismo che invece esalterebbe tale natura. E’ una convinzione profondamente errata ma viene da lontano. Ha le sue radici nelle tesi del Marx politico,  espresse in particolare nelle opere di propaganda, a partire dal Manifesto del partito comunista, laddove si disegnava la borghesia capitalista come «incapace di rimanere ancora più a lungo la classe dominante della società..(e) incapace di dominare perché incapace di assicurare al suo schiavo l’esistenza persino nei limiti della sua schiavitù..l’esistenza della borghesia non è più compatibile con la società»3. La storia ha abbondantemente dimostrato che non era così: non solo il capitalismo è rimasto il sistema dominante ma ha esteso di gran lunga, rispetto all’epoca di Marx, il suo comando e la sua penetrazione mondiale. A riprova che, diversamente dal pensiero idealista e antropologicamente naif sulla natura umana, di essa il capitalismo coglie, interpreta, esalta ed esaspera alcune caratteristiche, di cui il Marx analista del Capitale probabilmente era consapevole mentre, credo, il Marx politico metteva in ombra per galvanizzare la lotta contro il sistema, dipingendolo come più fragile e innaturale di quanto effettivamente fosse.

Potremmo dire che capitalismo e comunismo (o meglio, benicomunismo, che è la mia versione, descritta nel libro omonimo, di una possibile società post-capitalistica, estranea al “socialismo reale” novecentesco) esaltano caratteristiche opposte ma tutte ben radicate nella parte biologica e istintuale della natura umana. Il primo porta al parossismo l’egotismo unilaterale e competitivo, la cupidigia di potere e di possesso, l’individualismo combattente, la lotta di tutti contro tutti e il premio ai vincitori che guadagnano con la vittoria tutto il bottino: insomma il trionfo organizzato e incentivato di quella che di solito, facendo sempre torto agli animali, si definisce “legge della giungla”. A tale “legge” una parte dell’animo umano è sensibile, in contrasto però con l’altra parte, quella che ho definito dell’egoismo altruista, cioè la consapevolezza che, invece di lottare con l’Altro, è bene allearcisi, per il bene proprio e comune. Guai dunque a pensare che, come sottintende Cimatti, il sistema che combattiamo, essendo “innaturale”, sia destinato di per sè a sparire. Però, lo stesso Cimatti manifesta qualche incertezza se più avanti scrive: «La natura dell’animale umano è di non avere una sola vita naturale di fronte a sé. La nostra biologia è quella di poterci costruire la nostra vita. Di tutte queste potenzialità il capitalismo ne esalta e ne sviluppa soltanto una, l”avere cose”»4. Verrebbe da dire: buona la prima frase, discutibile la seconda, errata ed unilaterale la terza. E cioè: è vera la pluralità di opzioni “naturali” a disposizione di ogni essere umano, che può scegliere tra l’individualismo e la socialità, tra privilegiare l’Io o il Noi. Ma sempre con i limiti fin qui citati: da un punto di vista biologico la difesa di se stessi è ineludibile; e dunque è assai dubbio che ci si possa «costruire la vita» su un piano esclusivamente concettuale, come se gli umani fossero plasmabili a piacere e si potesse eliminare ogni pulsione istintuale verso la pura difesa del Sé. Del tutto sbagliata, infine, la terza frase, una distinzione manichea secondo la quale il capitalismo è solo la società dell’avere mentre il comunismo sarebbe la società dell’essere.

Credo che, malgrado una pletora di filosofi, letterati e pensatori si siano cimentati nei secoli sulla distinzione tra le due categorie, nessuno/a sia mai riuscito davvero a tracciare una netta linea di divisione tra di esse. L’avere contiene una vasta gamma di contenuti e caratteristiche: si possono avere ricchezze materiali e oggetti di consumo, ma anche desideri e speranze, idee e sentimenti, conoscenze e amori; oppure, avere potere, ruoli sociali rilevanti, forti ambizioni, protagonismo. Anche l’essere è categoria sfuggente: si può essere intelligenti e colti, amanti dell’arte e della natura; ma si può anche essere potenti e aggressivi, feroci e sfruttatori. Quindi, andrebbero evitate rozze semplificazioni usate per dimostrare che il capitalismo è solo la società che induce al possesso spasmodico di oggetti e alla cancellazione di ogni cura della propria personalità, mentre la società che vogliamo sarebbe imperniata sulla realizzazione completa di un essere, destinato a vivere di spiritualità e pienezza interiore. Alla fin fine, malgrado i bombardamenti pubblicitari, sta ad ogni individuo la decisione di quanto assecondare questa pressione: e d’altra parte non è che la propaganda dell’essere comunisti da parte dello stalinismo novecentesco fosse meno invadente, aggressiva fino alla violenza estrema. E’ invece condivisibile la polemica di Cimatti contro le tesi (opposte a quelle sugli umani naturalmente comunisti) della psicologia evoluzionistica e in particolare del sociobiologo Edward Wilson, una lettura meccanicistica della natura umana come incapace di prefissarsi «uno scopo che vada al di là degli imperativi creati dalla sua storia genetica»5, visto che la mente umana sarebbe «costruita in una maniera che la..costringe a fare delle scelte con uno strumento puramente biologico. Se il cervello umano si è evoluto grazie alla selezione naturale, persino le capacità di scegliere particolari giudizi estetici e credenze religiose devono aver avuto origine dal medesimo processo meccanicistico»6. Secondo Wilson ed una intera scuola di pensiero antropologica (e politica), la natura umana sarebbe già fissata, attraverso i  passaggi della sua evoluzione biologica, in maniera irreversibile e immutabile.

«La mente umana non è una “tabula rasa” su cui l’esperienza disegna complesse figure. Essa..è un dispositivo di esplorazione dell’ambiente che prende in considerazione certi tipi di scelte e non altre e poi, per disposizione innata, propende per un’alternativa rifiutandone altre…I particolari del processo decisionale distinguono gli esseri umani l’uno dall’altro, ma le regole che vengono seguite sono tanto strette da produrre un’ampia sovrapposizione delle decisioni prese da tutti gli individui e una convergenza tanto intensa da poter essere definita natura umana»7.

Cimatti contesta giustamente l’idea che la natura umana sia fatta solo di istinti biologici, predeterminati nell’evoluzione e non modificabili, e che dunque l’umano veramente naturale sia quello delle origini, agli albori dei tempi, dato che «i meccanismi che erano adattamenti a un antico modo di vivere non necessariamente saranno adattativi nel mondo moderno»8.

«Secondo la sociobiologia la mente umana, come conseguenza della sua conformazione naturale, non si trova a proprio agio nel mondo della cultura, nel mondo umano successivo al Pleistocene9…Questa considerazione è particolarmente rilevante quando si tratta di stabilire qual è. se ne esiste una, la vita giusta per gli esseri umani. Se esiste una natura universale umana che consiste in una serie di “meccanismi psicologici evolutivi” adattati alle condizioni di vita del Pleistocene, allora la vita giusta sarà quella che valeva in quelle condizioni; ciò significa in particolare, che il modo di vita moderno di molte società umane è da considerare non naturale. La vita giusta esiste, ma non è per esempio quella che aumenta la giustizia sociale o l’eguaglianza, ma è quella dell’orda primitiva degli antenati della nostra specie»10.

Si tratta in effetti di una tesi assurda sul piano scientifico e reazionaria una volta calata nel dibattito politico-sociale, che vorrebbe trasferire la fissità della mente dell’uomo preistorico ad oggi, considerando addirittura innaturale l’adattamento di essa (in realtà sparita da decine di secoli, essendosi modificata proprio con lo scambio sociale) alla civiltà e alla cultura odierne. Ma Cimatti per così dire, piega troppo il bastone dall’altra parte, sottovalutando gli istinti ancora operanti e non eliminabili per via culturale. A Wilson che scrive, a proposito dell’etica umana:

«Può l’evoluzione culturale dei valori etici superiori acquistare una propria orientazione e un proprio impulso e sostituire completamente l’evoluzione genetica? Penso di no. I geni tengono la cultura al guinzaglio…Il cervello è un prodotto dell’evoluzione. Il comportamento umano – come le più profonde capacità di risposta emotiva che lo sospingono e lo guidano – è la tortuosa tecnica grazie alla quale il materiale genetico umano è stato e sarà mantenuto integro…Le forme di organizzazione sociale più elaborate servono in ultima analisi da veicolo del benessere individuale, verso il vantaggio darwiniano del singolo essere umano e dei suoi parenti più stretti»11.

così risponde Cimatti: «Se la moralità non ha altra funzione se non quella puramente biologica di aumentare la diffusione del materiale genetico umano..(se) l’etica naturale non è mai disinteressata, un’etica interessata può dirsi ancora un’etica?..Per Wilson il futuro rappresenta un pericolo perché è nel passato che si trova la natura umana. La conseguenza finale di questo ragionamento è che un mondo giusto, un mondo in cui i diritti dell’altro non vengano stabiliti in rapporto alla sua maggiore o minore vicinanza genetica con noi, diventerà possibile solo andando oltre la nostra natura»12.

Se l’unilateralità estremista di Wilson e degli psico-evoluzionisti politicamente fornisce ricco materiale alle posizioni più conservatrici o reazionare, un opposto unilateralismo impedisce però a Cimatti di accettare la parte non contestabile delle tesi wilsoniane, concentrata nella affermazione che «l’evoluzione culturale dei valori etici superiori» non può «sostituire completamente l’evoluzione genetica». Insomma, la natura umana non coincide con l’istinto primigenio dell’uomo delle caverne, tuttavia alcuni istinti fondamentali sembrano ineliminabili, visto che ogni individuo ha come obbligo genetico l’autoconservazione e la difesa del Sé, ostacoli insormontabili per chi (non Cimatti) vede il comunismo come una società-formicaio.

Peraltro, l’idealismo sull’umanità naturalmente comunista impedisce a Cimatti di rispondere alla sua stessa domanda se un’etica interessata si possa ancora chiamare etica, non riuscendo a spiegarci di cosa sia fatta un’etica disinteressata e come possa divenire possibile, a livello di massa, che un individuo accetti l’imposizione di criteri morali e sociali che vadano radicalmente contro i propri interessi. In realtà, nessun astratto valore etico può far dimenticare il Sé, a cui si può chiedere di accettare un equilibrio tra il Noi e l’Io ma non di sacrificare sistematicamente il secondo al primo. Cosicché si può dire che ogni etica sia, seppur in forme diverse, interessata: ho interesse a sostenere e praticare una certa etica e un comportamento sociale conseguente se credo che in tal modo la vita della collettività favorisca e difenda la mia partecipazione ad essa. In definitiva, possiamo considerare punto cruciale etico la massima «non fare agli altri quello che non vorresti venisse fatto a te» o, in positivo, «fai agli altri quello che vorresti venisse fatto a te»: è l’applicazione collettiva di questi principi, e non già l’annullamento dell’Io o il disvelarsi subitaneo della “naturale” bontà e socialità umana, a poter costituire il substrato di una società post-capitalistica egualitaria.

Penso per esempio che il signor X, che si ritiene virtuoso eticamente, consideri gravi offese all’umanità il massacro, la strage, la tortura e anche il “semplice” assassinio, non per imprimatur divino (tant’è che la grande maggioranza degli uomini e donne accetta tranquillamente le stesse violenze se fatte agli altri animali; e una parte di essi, non virtuosi, le infliggono pure agli altri umani) ma perché non vuole essere massacrato, torturato e ammazzato lui stesso: ed in nome di questa elementare forma di autodifesa, è disposto/a a rinunciare ad uccidere chi lo danneggi gravemente nella vita quotidiana. Queste motivazioni, a mio parere, valgono più o meno per ogni principio etico: che affermiamo non già perché, come nel mito platoniano dell’Iperuranio, abbiamo magicamente visitato quel mondo celeste venendo così a conoscenza dei veri ed assoluti principi morali, ma perché presumiamo che tali principi – come pure quelli relativi ad una possibile società senza sfruttamento, guerre e ingiustizie sociali – consentirebbero la miglior vita possibile in primo luogo a noi stessi. Dunque, è vero che una natura umana costruita solo intorno «alla nozione di istinto, e quindi orientata verso il passato, non è in grado di spiegare la variabilità del comportamento umano e soprattutto l’orientamento verso il cambiamento e il futuro della nostra specie (p.23)»: a patto però di non estremizzare la tesi al punto da ritenere possibile (e magari auspicabile) l’annullamento di ogni istinto, e in particolare di quelli preposti alla difesa e alla valorizzazione della propria individualità.

Analogamente, ritengo che vada seguita una simile aurea via di mezzo13 (seppur non nel senso datole da vari neo-confuciani, che praticano l’indifferenza e l’accettazione dell’esistente) nella contesa teorica che Cimatti ingaggia con una posizione ideologica, culturale e politica che è opposta a quella degli psico-evoluzionisti, espressa in maniera esemplare e celebre da Arnold Gehlen14. Nel sesto capitolo di Benicomunismo ho trattato dettagliatamente la visione antropologica del filosofo tedesco e la sua contrapposizione a quella della Scuola di Francoforte e di Adorno in particolare: e a quelle pagine rimando per un approfondimento in materia, mentre qui approfitterò della polemica a distanza di Cimatti con Gehlen per chiarire ulteriormente il mio punto di vista mediano tra i due poli del contrasto. L’epicentro del pensiero antropologico di Gehlen è racchiuso nella convinzione che gli umani siano non solo privi di istinti immutabili ma non abbiano neanche una natura specifica, né una base psico-biologica determinata o una struttura evolutiva definita.

«L’uomo è determinato in linea fondamentale da una serie di carenze, nel preciso senso biologico di inadattamenti, non specializzazioni, primitivismi, cioè carenze di sviluppo, in senso essenzialmente negativo…Difetta di istinti autentici e durante l’intera infanzia ha necessità di protezione per un tempo incomparabilmente protratto; in altre parole: in condizioni naturali, originarie, trovandosi, lui terricolo, in mezzo ad animali valentissimi nella fuga e ai predatori più pericolosi, l’uomo sarebbe già da gran tempo eliminato dalla faccia della terra»15.

In questo passaggio, in effetti, l’argomentazione si presenta superficiale, al limite del puerile. La lunghezza del periodo in cui gli umani sono indifesi non è un argomento significativo: peraltro anche i “predatori pericolosi” sono, nei primi mesi di vita, del tutto fragili. E men che meno è sostenibile la tesi dell’”inadattamento” o delle “non specializzazioni”, visto che la specie umana ha dimostrato l’esatto opposto, e cioè la massima capacità di adattarsi all’ambiente esterno e di specializzarsi, sviluppando attraverso il pensiero, il linguaggio e il conseguente sviluppo tecnico e scientifico una serie di strumenti difensivi e offensivi, che ovviassero alle effettive limitatezze fisiche, se confrontate con la forza degli animali predatori. Divenendo animale altamente pericoloso, offensivo e “predatore”, e certamente iper-specializzato, in grado ora, volendo, di eliminare la gran parte delle altre specie animali o comunque di sottometterne tante, come ha fatto nella realtà, trasformandole in cibo di massa, nella forma dell’allevamento/macellazione, o imprigionandole in mille forme, fino a torturarle e vivisezionarle per i propri fini. Il ché tra l’altro dimostra l’inconsistenza dell’altra tesi di Gehlen, quella secondo la quale gli umani «difettano di istinti autentici»: in realtà l’istinto di sopravvivenza, di difesa, sviluppo e potenziamento del singolo individuo è fortissimo negli umani, al punto da spingere il cervello ad elaborare i più efficaci strumenti al proposito, producendo una incontrastata supremazia su qualsiasi altra specie animale (magari escludendo virus e batteri, con i quali la “partita” resta quantomeno aperta). Non è dunque difficile per Cimatti contestare questa parte delle tesi di Gehlen.

«Ma è biologicamente giustificato sostenere che l’uomo non abbia specializzazioni corporee e mentali? Un piccolo umano comincia a parlare una lingua in pochi mesi, e in meno di due anni sviluppa sorprendenti capacità linguistiche, non sembra affatto privo di specializzazioni, al contrario il suo cervello è predisposto per imparare una lingua e il suo corpo per ascoltare e produrre suoni linguistici…Per Gehlen la natura umana, in modo simmetrico e contrario alla concezione della psicologia evoluzionistica, è quella di “un essere irrimediabilmente inadeguato”, segnato da una “sprovvedutezza biologica unica”. Il corpo “naturale” umano è quindi “nudo”…Se però osserviamo il mondo umano reale, non troviamo mai un essere umano nudo in questo senso radicale: anche l’umano più primitivo ha sempre con sé almeno un’arma, poi un contenitore per l’acqua, una sporta per il cibo e così via»16.

Non si tratta di un contenzioso puramente ideologico e culturale: da tali premesse Gehlen trae una esaltazione della assoluta necessità delle istituzioni coercitive e repressive, visto che gli umani sarebbero indifesi, sbandati, incapaci di decidere. E che questa visione antropologica portasse Gehlen e i suoi sostenitori ad assumere un ruolo molto conservatore da un punto di vista sociale e politico, era quanto segnalavo, con le parole di Franco Cassano, in Benicomunismo.

«Secondo Gehlen l’uomo è sprovvisto, a differenza degli animali, di quegli schemi preordinati di comportamento che sono forniti dagli istinti e quindi è “un essere organicamente manchevole”. Egli ha un costante bisogno di istituzioni, che gli consentano di rendere stabile la sua condotta, sottraendolo all’imprevedibilità che nasce da quella profusione di stimoli che lo rende differente e più esposto rispetto agli animali…(Così) le istituzioni divengono una “seconda natura” che agevola la vita dell’uomo immettendola nei binari della routine e dei ruoli e consentendogli di agire senza ogni volta dover tornare a scegliere e pensare…Per Gehlen la funzione vitale delle istituzioni sta proprio nella loro capacità di liberare le spalle degli uomini dal fardello di dover prendere decisioni su tutte le questioni della loro vita. Esse aiutano gli uomini in quanto producono un esonero dai rischi che nascerebbero se si affidassero alla loro autonomia» 17. 

Che è poi, più o meno, anche la tesi sostenuta da Cimatti.

«Non viene chiesto all’animale lo sforzo, e l’incertezza, di decidere cosa è ciò che si trova di fronte: a questa domanda hanno già risposto i suoi istinti che lo guidano con sicurezza. Gehlen spesso descrive questa situazione con parole confortanti, quasi di rimpianto. Del tutto diversa, invece, la situazione umana, che vive la condizione di un radicale “disancoraggio da un ambiente preciso”18. La caratteristica distintiva del mondo è che al suo interno “l’uomo è soggetto ad una profusione di stimoli assolutamente estranea alla natura animale, ad una piena ‘senza scopo’…Gli sta di fronte, in termini negativi, un mondo di sorprese, dalla struttura imprevedibile che va esperito con circospezione”19…Il primo compito dell’umano è “trasformare le condizioni deficitarie della sua esistenza in possibilità di conservarsi in vita”20…L’animale umano diventa così intrinsecamente pericoloso, perché privo di una determinata natura biologica…Per Gehlen l’animale umano è così “un essere da disciplinare”… In questa descrizione della vita è implicito un programma politico e sociale reazionario»21.

Ora, è fuor di dubbio che vada rifiutata una lettura della specie umana misantropa come quella di Gehlen, laddove si suppone che la vita sarebbe più facile e gradevole per uomini e donne se fosse simile a quella dei non-umani, caratterizzata da una «benefica assenza di domande» e da una tale predominanza degli istinti che uomini e donne non debbano neanche «immaginare un’altra possibilità» di azione, poiché scelte e decisioni procederebbero «senza arresti o dubbi, con la forza di convinzione di ciò che è naturale». Pur tuttavia, non vanno trascurati due punti forti dell’argomentazione di Gehlen. Il primo riguarda il diffuso atteggiamento umano riguardo alle responsabilità sociali e alla partecipazione ai processi decisionali. Per Gehlen gli umani hanno assoluto bisogno di istituzioni coercitive e gerarchiche che diventino una seconda natura che permetta loro di agire senza essere obbligati ogni volta a dover scegliere, con i conseguenti rischi di sbagliare e le successive penalizzazioni. La forza delle istituzioni starebbe dunque nel fatto che tolgono dalle spalle degli umani il fardello della decisionalità su quel che riguarda la loro vita in società, esonerandoli dagli oneri della scelta e del possibile errore. Effettivamente la fuga dalle responsabilità dei processi decisionali collettivi è una costante nel comportamento della grande maggioranza degli umani, con la conseguente delega a quei pochi/e che però si riservano poi il diritto di decidere per tutti/e, annullando ogni reale democrazia partecipata. Solo che Gehlen sbaglia grossolanamente attribuendo questa atteggiamento – scansare i rischi e gli oneri dell’impegno sociale collettivo – al fatto che uomini e donne sarebbero sprovvisti degli schemi preordinati di comportamento forniti dagli istinti: il che causerebbe instabilità nella loro condotta di vita in assenza di istituzioni che li controllino e li guidino. 

Non è la manchevolezza genetica o la carenza di istinti a frenare la gran parte degli umani quando si tratta di partecipare a imprese collettive e di assumersi responsabilità di scelta all’interno dei processi sociali, ma al contrario proprio il più potente degli istinti: la difesa della propria individualità. Decidere significa anche confliggere, contrastare, farsi dei nemici, rischiare l’errore e le conseguenze sociali di esso. Quello che, ad esempio, l’esperienza di mezzo secolo mi ha insegnato è che, malgrado noi – come movimenti, come anticapitalisti e come Cobas – si sia tentato di agevolare la partecipazione e la responsabilizzazione collettive, il meccanismo di delega delle decisioni ad altri/e resta largamente maggioritario: e non già per manchevolezze istintuali ma perché una partecipazione e una decisionalità permanenti sono onerose e logoranti. Perché fare tutto ciò senza poterne ricavare tangibili vantaggi individuali, si domandano in tanti/e?

L’istinto, così come suggerisce alla gazzella di “scansare” il conflitto con il leone, consiglia molto spesso agli umani di evitare scontri, contrasti e impegni che, oltre ai rischi e ai possibili insuccessi, non diano anche gratificazioni, prebende, premi concreti. Insomma, torniamo all’egoismo altruista: in generale, ci si impegna stabilmente in iniziative, imprese e battaglie collettive se si ritiene che ciò sia compatibile con miglioramenti della propria condizione individuale, cioè se la partita tra dare e avere è vantaggiosa o almeno non in netta perdita. D’altra parte abbiamo una valanga di esempi di individui che sembravano passivi ed amorfi finché i danni sociali non li colpivano direttamente, divenuti vere furie una volta che sono stati presi di mira, da questo o quell’evento o provvedimento, in prima persona e senza possibilità di fuga. Dal che la mia convinzione che la partecipazione collettiva, fondamentale per ogni seria trasformazione sociale, non richieda mutamenti biologici ma un’efficace miscela di interessi collettivi e difesa individuale. C’è poi una seconda considerazione di Gehlen che è rilevante, ed è il bisogno di istituzioni che gli umani hanno sviluppato nel tempo.

«L’instabilità della vita istintuale umana appare quasi senza limiti. Sono le forme inibitorie fisse e  limitanti, sperimentate nel corso dei secoli, quali il diritto, la proprietà, la famiglia monogamica, il lavoro diviso in modo determinato, che hanno disciplinato le nostre pulsioni e intenzioni…Queste istituzioni non sono in alcun senso naturali, e possono venire molto rapidamente distrutte…E quando si abbattono i puntelli, noi ci primitivizziamo molto velocemente»22.

Gehlen coglie un’indubbia caratteristica della natura umana come si è modellata almeno negli ultimi 30 secoli, pur se di nuovo sbaglia bersaglio quando individua la causa del bisogno di istituzioni nella debolezza e incostanza di uomini e donne nei processi decisionali e nell’assunzione diretta di responsabilità sociali. Le strutture istituzionali,  alle quali viene consegnato il monopolio dell’uso della forza, della dissuasione e della repressione/punizione, sono state pressoché sempre accettate a causa della necessità di regole condivise e fatte rispettare anche con la forza, che non costringano l’individuo ad attendersi in ogni momento assalti frontali da parte dell’Altro e a doversi attrezzare di conseguenza. Anche nei processi rivoluzionari, dopo una breve sospensione di autorità, alle vecchie istituzioni ne sono sempre succedute altre, anch’esse depositarie del monopolio del controllo, della forza, della dissuasione. In effetti, quella che Gehlen chiama la primitivizzazione dei comportamenti umani nelle fasi in cui crollino le vecchie istituzioni ma non sia in corso alcun processo rivoluzionario che si proponga di istituirne di nuove e migliori, è una costante storica (e a tutte le latitudini) innegabile: e basterebbe guardare anche solo alla barbarie degli ultimi decenni nei luoghi di guerra dove si sono disgregate le comunità nazionali senza che si delineasse un nuovo equilibrio istituzionale e sociale. Ad incidere in questa ricerca della stabilità e di strutture istituzionali riconosciute, non c’è solo la paura del caos e l’incertezza di vita nei rapporti tra l’individuo e la collettività ma anche la coscienza del fatto che nella società, come generalmente in natura, il vuoto non esiste e l’assenza di istituzioni condivise lascia spazio a “istituzioni” delinquenziali (vedi da noi il doppio Stato esistente laddove più forti e potenti sono le strutture delle mafie organizzate) e alla guerra per bande, con strumenti generalmente più feroci, violenti, spietati e gerarchici di quelli mediamente usati dagli Stati per imporre i loro voleri.

La polemica di Cimatti con le tesi di Gehlen si ripropone poi nel conflitto con il pensiero dell’homo homini lupus di Hobbes. «Gli uomini non hanno piacere, ma al contrario molta molestia, di stare in compagnia di altri», è il punto di partenza, dal Leviatano23, per le valutazioni di Hobbes sui singoli Ego che, chiusi nella propria solitudine e nella conflittualità permanente con l’Altro, necessiterebbero del controllo costante e coercitivo di un Potere esterno perché «è manifesto che, durante il tempo in cui gli uomini vivono senza un potere comune che li tenga in soggezione, essi si trovano in quella condizione che è chiamata guerra, e tale guerra è di ogni uomo contro ogni altro uomo»24. Ed è certamente puntuale la fotografia critica che Cimatti fa di questa visione disperante della vita, della società e della natura umana, misantropa fino alla paranoia sul piano psicologico..

«(Per Hobbes) il proprio simile è naturalmente un nemico. A fondamento di questa impostazione c’è “la libertà, che ciascun uomo ha, di usare il suo potere come egli vuole per preservare la sua natura, cioè la sua vita, e di fare perciò qualunque cosa egli crederà che sia il mezzo più adatto a quello scopo”25. Se l’animale umano non ha bisogno, per diventare umano, delle relazioni sociali, se nasce libero in questo senso radicale, se la socialità è l’effetto di un artificio, allora l’altro non può che essere un ostacolo e un pericolo. “Poiché la condizione dell’uomo..è una condizione di guerra di ognuno contro un altro, nel qual caso ognuno è governato dalla propria ragione.. nel preservare la sua vita contro i nemici, ne segue che ogni uomo ha diritto su ogni cosa, anche sul corpo l’un dell’altro (Leviatano, p.113)”. La più disperante conseguenza del radicale individualismo di Hobbes è la negazione di ogni forma di giustizia originaria: “da questa guerra di ognuno contro ognuno risulta anche che niente può essere ingiusto. La nozione del diritto e del torto, della giustizia e dell’ingiustizia non vi ha luogo. Dove non esiste legge, non esiste giustizia. La giustizia e l’ingiustizia non appartengono alle facoltà né del corpo né dell’anima…Esse sono qualità che si riferiscono agli uomini in società, non in solitudine (pp.111-112)”»26.

Questo ipotetico uomo hobbesiano che avrebbe «molta molestia di stare in compagnia degli altri», è davvero una fotografia irreale della natura degli umani, che nascerebbero “solitari” (evento materialmente impossibile) e così vorrebbero restare a vita. Ma ancora più lontana da una reale e concreta antropologia, è la convinzione hobbesiana di un essere umano desideroso di totale e illimitata «libertà di usare il suo potere come egli vuole per preservare la sua vita, e di fare perciò qualunque cosa egli crederà che sia il mezzo più adatto a quello scopo». Sul tema della libertà, faccio una breve digressione, a partire dalle considerazioni in materia di Gustavo Zagrebelsky.

«Tanto più il concetto è generale e astratto, tanto meno è determinato in particolare e in concreto. Questo vale per la libertà: libertà di e da che cosa? I criteri assoluti sono tutti privi di contenuto. Già Montesquieu, realista e nemico dei voli pindarici, aveva osservato (“Lo spirito delle leggi”, libro XI, cap.II): “Non c’è parola che abbia ricevuto tanti significati quanto la libertà. Gli uni l’hanno presa come facilità di liberarsi di coloro ai quali avessero attribuito poteri tirannici; altri, come facoltà di eleggere coloro ai quali dovessero obbedire; altri, come diritto di portare le armi e di esercitare la violenza; alcuni”. Se avessimo voglia di leggere il “Mein Kempf” di Hitler, troveremmo che per lui la libertà aveva a che fare con l’intolleranza fanatica, il militarismo, la purezza della razza, il giovanilismo, la liberazione dal peso della cultura, il disprezzo del pacifismo e dello spirito egualitario, l’espansionismo, la sopraffazione del più debole da parte del più forte: l’uomo libero come “superuomo”,“signore della terra”. Che ha a che vedere questo modo di intendere la libertà con, ad esempio, il primo articolo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1848: “Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti”? Nulla»27.

Benché la mia idea di libertà non sia esattamente quella di Zagrebelsky condivido che non sia un concetto assoluto, e ricordo che la libertà del singolo individuo non può mai essere incondizionata. La libertà è sempre e comunque condizionata: ed ogni essere umano, ad di fuori di eccessi di  misantropia alla Hobbes, ne è generalmente consapevole. Non esiste una libertà che non abbia «impedimenti esterni», come vagheggiava Hobbes, o che, come scrive Franco Russo (che pure ne è agli antipodi), «è la capacità di agire per creare se stessa, senza sottostare a limitazioni storico-sociali e culturali»28. Ogni libertà personale deve fare i conti con gli altri/e, né può essere consentito al singolo di agire a danno della collettività pur di garantirsi la totale espansione dell’Ego e dei propri interessi in una logica di individualismo combattivo; così come non ci può essere la “piena libertà” di sfruttare gli altri, di dominarli con la forza, di opprimerli e di esercitare su di essi ogni sorta di violenze che il proprio Ego voglia mettere in atto liberamente. Anche l’umano più potente sa che esistono limiti alla sua libertà: e se li ignora, e usa il suo potere per scavalcarli, è cosciente che il suo arbitrio è unicamente basato sulla forza e che, dunque, domani potrebbe venir meno, pagandone le conseguenze. In generale, la grande maggioranza degli individui, a meno di non poter contare su un potere personale illimitato, accetta un condizionamento reciproco e una limitazione delle proprie libertà, venendo a patti con gli altri, visto che al contrario della paranoica visione di Hobbes, gli uomini, e ancor più le donne, in larga maggioranza non solo non amano la guerra permanente ma sopportano a mala pena anche il conflitto prolungato. Quel che importa ai più è poter addivenire ad un’equa mediazione tra la libertà individuale e l’interesse collettivo, che non sottometta la prima alla seconda ma che non consenta neanche l’arbitrio dell’Io nei confronti della società organizzata: ed in definitiva anche questo rimanda a modalità di democrazia partecipata che consentano ad ognuno/a, in una società egualitaria, di contribuire alla ricerca di tale buona mediazione.

Tornando allo scritto di Cimatti, mi pare che tale dialettica tra l’Io e il Noi sia invece assente, o comunque trascurabile, quando l’autore, accantonate le critiche ai teorici dell’immodificabilità della natura umana, passa a descrivere cosa gli fa credere che essa sarebbe naturalmente comunista.

<<Il problema della natura umana è il problema del possibile…Tale esperienza è il principale effetto del fatto che siamo l’unica specie animale in grado di usare una lingua…Secondo Chomsky ciò che è innato nella facoltà del linguaggio si riduce ad una proprietà fondamentale, presente solo nella specie Homo sapiens, la capacità della cosiddetta “infinità discreta”29, in base alla quale da “un insieme finito di elementi” si può generare “una matrice potenzialmente infinita di espressioni discrete”30…Questa proprietà permette di assemblare combinazioni di segni linguistici a cui non corrisponde nulla di effettivamente esistente..In questo modo diventano accessibili al pensiero cosciente anche entità che non esistono realmente, semplicemente perché possiamo individuarle come un nuovo oggetto dicibile…Il carattere biologico distintivo dell’animale umano è il concetto linguistico, che significa che è biologicamente predisposto a immaginare/pensare entità che non esistono (ancora) nel mondo… questa è la natura umana, di pensare il non reale, il possibile»31.

Di questa impostazione non sorprende tanto la centralità attribuita al linguaggio nel determinare le caratteristiche della natura umana: per un linguista di professione ci può stare una tale enfasi. Stupisce invece come Cimatti possa davvero ritenere che l’uso del linguaggio determini di per sé una naturale tendenza degli umani verso il comunismo, visto che esso è stato usato nel corso dei secoli – e continua ad esserlo – per le cose più sublimi e per quelle più infami, dai più raffinati artisti e dai più crudeli torturatori, per il bene delle collettività e per la più efferata violenza verso di esse, per elevare la giustizia e l’eguaglianza ma ancor più per ingannare i popoli e sottometterli ai voleri delle oligarchie. E stupisce altrettanto che si ritenga indirizzato di per sé verso una superiore socialità l’istinto biologico della infinità discreta, cioè la capacità di immaginare come possibile qualcosa che non esiste ma che ci potrà essere, e dunque la disponibilità al cambiamento, all’innovazione, alla trasformazione. Questa capacità vale, ad esempio, per il capitalismo tanto quanto per il comunismo novecentesco o per il possibile benicomunismo. Fu proprio Marx, punto di riferimento assoluto per Cimatti, ad esaltare con enfasi l’attitudine allo sconvolgimento dell’esistente da parte di quella borghesia che «ha avuto nella storia una funzione sommamente rivoluzionaria». Furono Marx ed Engels, a celebrare la caratteristica dominante della borghesia capitalistica che «ha distrutto le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliache, ha lacerato senza pietà i variopinti legami che nella società feudale avvincevano l’uomo ai suoi superiori naturali…ha affogato nell’acqua gelida del calcolo egoistico i santi fremiti dell’esaltazione religiosa…ha spogliato della loro aureola quelle attività che erano considerate degne di venerazione e rispetto, ha trasformato il medico, il giurista, il prete, il poeta, lo scienziato in suoi operai salariati, ha strappato il velo di tenero sentimentalismo che avvolgeva i rapporti di famiglia e li ha ridotti ad un semplice rapporto di denari»32.

E non è forse vero che da allora il capitalismo, pur difendendo con ogni mezzo i rapporti di proprietà, ha continuato a trasformare le società, il mondo materiale e quello mentale, le condizioni di vita quotidiane e le idee di miliardi di persone? Poteva forse Marx anche solo vagamente immaginare che nel secondo decennio del Duemila il capitalismo più aggressivo economicamente, più capace di invadere il mondo con i suoi prodotti – il capitalismo di Stato cinese – avrebbe avuto alla guida un partito “comunista”? Decisamente più realistiche, dopo le enfatiche considerazioni a sostegno del naturo-comunismo, appaiono invece alcune domande, e anche una parte delle risposte, che Cimatti si/ci fa successivamente.

«La natura umana è indefinitamente plastica? O non esiste un’essenza umana? A questo punto possiamo abbandonare questa contrapposizione, che sempre più appare improduttiva e concentrarci invece sul tema della negoziazione del confine tra naturale – e quindi dato, da accettare perché la natura è fatta così – e culturale, ossia ciò che è in nostro potere fare, o non fare…Questa conclusione lascerà insoddisfatto chi vuole poter indicare con sicurezza cosa nel comportamento umano è biologico, innato, iscritto nel genoma, e cosa invece non lo è»33.

In realtà la conclusione non sarebbe di per sé insoddisfacente, fermo restando che un elemento certamente iscritto nel genoma umano è la difesa, la cura e il rafforzamento di se stessi. La negoziazione con l’Altro e la conseguente socializzazione non è una ricaduta inevitabile dell’uso del linguaggio, ma il risultato di una constatazione che già l’infante umano non può evitare: ho bisogno degli altri! Il “negozio”, o meglio la mediazione tra le due esigenze, è un’operazione che il singolo fa con i caratteri propri della sua individualità ma anche in base alla socialità che gli viene proposta e alle regole del gioco che si trova davanti: ed è per questo che non si può sostenere di per sé la naturalità dell’essere o del divenire comunisti o benicomunisti. Una società che superi il capitalismo e pratichi la gestione collettiva dei principali mezzi produttivi e finanziari e dei Beni comuni, è una possibilità, non una certezza deterministica o la realizzazione della nostra vera genetica. Ed è per questo che, piuttosto che crogiolarsi nelle vetero-certezze marxiane sulla inevitabilità del socialismo, bisogna dedicare il massimo impegno a chiarire, nella teoria e nella pratica, proprio le regole del gioco e prima di tutto le forme di una democrazia partecipata: perché se il comunismo di cui Cimatti o altri/e parlano assomigliasse a quello staliniano, oggi l’Io e il Noi sarebbero d’accordo nel rigettarlo, visto che la mediazione tra gli interessi individuali e generali prevede il conflitto, e che esso, seppur in forme attenuate rispetto al capitalismo, andrà sempre messo in conto nella vita collettiva: considerazione sulla quale Cimatti conviene.

«Il disaccordo è la fisiologia delle relazioni umane perché la politica ha come conseguenza “la pura contingenza di ogni ordine sociale. C’è politica soltanto perché nessun ordine sociale è fondato in natura, e nessuna legge divina è in grado di mettere ordine nelle società umane”32La politica non è, allora, un’attività eventuale, a cui solo qualche umano può dedicare del tempo se non ha altro da fare: la politica è l’azione biologicamente fondamentale in cui ogni umano prende la parola e la propone alla comunità…Il conflitto rappresenta allora il fondamentale “meccanismo di socializzazione” attraverso cui gli umani diventano umani…Non può esistere un ordine sociale che esaurisca la potenza del possibile, perché ogni ordine è nient’altro che un ordine tra tutti quelli umanamente possibili. Il conflitto non rappresenta allora l’eccezione, bensì la fisiologia delle comunità umane, perché ci sarà sempre qualcuno la cui parola non viene riconosciuta, e che quindi lotta perché lo sia (pp.61-62-63-64)».

Questa sarebbe l’impostazione giusta: riconoscimento della permanenza del conflitto – che non riguarda però solo l’affermazione del proprio diritto di parola ma anche il contrasto che periodicamente si presenta tra interesse personale e collettivo – e nessuna illusione sulla linearità dell’abnegazione pubblica e della solidarietà sociale, con la necessità di farsi carico, tutti/e, della politica come strumento per dar senso all’ordine sociale democratico; e da tale punto di vista c’è sintonia con quanto ho sostenuto in Benicomunismo a proposito della democrazia come dovere. Ma la sintonia svanisce affrontando gli ultimi capitoli del testo, ove l’idealismo unilaterale del Marx politico viene addirittura accentuato e la tesi del natural-comunismo estremizzata, agganciata alla potenza “comunistizzante” del linguaggio.

«Ogni esemplare della specie Homo sapiens ha bisogno dell’altro per lo sviluppo anche della propria stessa anatomia. Quello umano è un organismo che in isolamento, cioè al di fuori delle relazioni sociali, è naturalmente incapace di realizzarsi e tantomeno di sopravvivere…C’è società perché l’umano, per natura, ha la parola; il nesso tra comunità e lingua (e quindi la facoltà del linguaggio) è originario. Finché questo nesso viene mantenuto, la vita non soltanto può essere possibile, ma può anche approssimarsi alla condizione di vita giusta…per natura è in tuti gli esseri umani la spinta verso la “comunità, che esiste per rendere possibile una vita felice (Aristotele, ‘Politica’)”. In questo capitolo esaminiamo i due casi connessi in cui questa condizione viene infranta, due situazioni in qualche modo innaturali: quella in cui l’individuo si appropria delle risorse pubbliche e ne fa uso privato, e quella in cui le entità pubbliche si staccano dalla relazione coevolutiva con gli esseri umani, proponendosi come forme di vita autonome e autosufficienti. Sono due aspetti complementari della condizione di vita del capitalismo (pp.100-101)».

Ora, è già una grossolana esagerazione sostenere che gli umani non sopravvivono al di fuori delle relazioni sociali: a meno che non ci si riferisca ai neonati, nei secoli lo hanno fatto milioni di persone, pur affrontando difficoltà rilevanti. Ma in ogni caso la fatica di vivere in isolamento nulla dice sul bisogno di comunismo, visto che gli umani hanno dimostrato, in tutta la loro storia, di poter vivere in qualsiasi tipo di comunità, comprese le più oppressive, violente, gerarchizzate ed ingiuste. Ciò che soprattutto è inconsistente in questa impostazione è: a) che sia il linguaggio a rendere, attraverso la comunità, «possibile una vita felice»; b) che sia di per sé innaturale la proprietà privata e che solo dall’avvento del capitalismo l’individuo si appropri delle risorse pubbliche e ne faccia un uso privato «e le entità pubbliche si staccano dalla relazione coevolutiva con gli esseri umani, proponendosi come forme di vita autonome e autosufficienti». Il massimo sviluppo del linguaggio, e delle attività sociali, letterarie e artistiche connesse, è da sempre co-esistito con ingiustizie, violenze e abusi di potere di ogni tipo: parole e scritti sono stati assai sovente usati per imprese ignobili e per subordinare i molti al potere dei pochi. La vita felice, di cui parla Aristotele, poteva essere tale per l’oligarchia delle polis greche, ove la tanto esaltata “democrazia” escludeva a priori la metà della popolazione, quella femminile, da ogni processo decisionale; si basava sulla schiavitù generalizzata e anche gli schiavi non avevano diritti; considerava i migranti inurbati, più o meno come fanno oggi i moderni xenofobi, non degni di avere i diritti di cittadino. Insomma, la “democrazia” decisionale, nelle città greche, riguardava poco più del 10% della popolazione.

In merito all’innaturalità della proprietà privata, Cimatti sembra ignorare del tutto il senso comune della maggioranza dell’umanità di ogni epoca di cui si abbiano comprovate documentazioni, che al contrario considera l’impulso ad appropriarsi di beni e ricchezze, piccole o grandi, del tutto naturale. Lo scontro epocale con il capitalismo non lo si vince dimostrando che ogni proprietà privata va contro la natura umana. I beni/comunisti, e in genere coloro che vogliono superare il capitalismo, devono essere in grado di dimostrare che la gestione e l’uso privati non di qualsiasi bene ma dei principali mezzi di produzione e finanziari, della ricchezza pubblica, dei Beni comuni ambientali e sociali, dei servizi pubblici, dell’istruzione, della sanità, della natura ecc. non è solo ingiusta ma soprattutto dannosa per l’intera specie umana e per le altre specie animali e vegetali, e che provoca miseria, ingiustizie sociali profonde e guerra permanente. E in più va evitata ogni nostalgia passatista, quel pensiero, già visto in Mattei e altri “benecomunisti”, che attribuisce nella Storia al solo capitalismo l’appropriazione delle ricchezze comuni e l’autonomizzazione delle «entità pubbliche», come appare lampante nelle frasi seguenti.

«Che succede quando i “fatti sociali” si presentano di fronte all’animale umano come cose immodificabili, come eventi fisici?…Si assiste ad un curioso rovesciamento: alcune forme storiche si presentano come fenomeni geologici, immodificabili ed eterni. La relazione coevolutiva si arresta, non è più l’umano che si adatta ai “fatti sociali” e viceversa; questi ultimi, nel tempo del capitalismo avanzato, diventano cose inattaccabili e immodificabili, che si tirano fuori dalla relazione coevolutiva. In questo mondo alla rovescia i “fatti sociali”, trasformati in cose, pretendono di dettare loro, agli esseri umani, come e perché vivere…Ora la vita stessa degli esseri umani dipende da una forza oscura e misteriosa che i “fatti sociali” – come le merci e il denaro – esercitano su di loro; non c’è più coevoluzione, ma sono gli umani a doversi adattare, se vogliono sopravvivere ai “fatti sociali” (pp.114-116)».

Insomma, sembrerebbe che per Cimatti solo dall’avvento del capitalismo «sono gli umani, se vogliono sopravvivere, a doversi adattare ai fatti sociali». Ma non è stato sempre così in tutte le società? Quello che vale oggi per il salariato, per l’operaio o il precario non fa il paio con la stessa subordinazione e sottomissione dello schiavo romano o del manovale/costruttore delle Piramidi, del servo della gleba medioevale o della sguattera delle corti rinascimentali? Forse che “forme storiche” come l’Impero romano o quello cinese, il regno dei Faraoni o il dominio plurisecolare di Bisanzio/Costantinopoli non si presentavano, pure esse, come “fenomeni immodificabili ed eterni” con addirittura alle spalle “una emanazione divina”? Per caso le comunità di quelle epoche e di quei luoghi erano davvero naturali, e dunque da rimpiangere nel confronto con il capitalismo? Mi pare davvero sconcertante (oltre che assai poco marxista) la sottovalutazione delle infamie delle precedenti società classiste, oligarchiche e analogamente basate sullo sfruttamento dei molti da parte dei pochi, dopo decine di secoli segnati da regni e imperi che hanno fatto strame dei diritti degli individui anche senza bisogno di intestarsi proprietà private. Ma forse le parti del libro che più spiegano perché Cimatti – e altri che come lui teorizzano la naturalità del comunismo, pur senza definirne le caratteristiche economiche, politiche e sociali, malgrado la catastrofe di quello staliniano – abbia evitato di analizzare la disastrosa materializzazione di tanti principi comunisti nel “socialismo di Stato” del Novecento (nonché il sostegno acritico fornito ad esso dalla grande maggioranza dei comunisti del secolo scorso), sono quelle conclusive, a partire dal peana per la funzione del lavoro nella realizzazione umana.

«Nel lavoro che produce un valore d’uso l’operaio realizza la sua umanità, afferma la sua perizia e la sua creatività..Il problema del lavoro non è un problema economico bensì antropologico; in gioco c’è la possibilità dell’operaio di rimanere umano in un mondo di cose, di valori di scambio, di denaro come valore di per sé…L’esistenza naturale degli umani consiste nel lavoro, nell’attività – inscritta nella loro costituzione biologica – in cui contemporaneamente costruiscono il proprio ambiente e se stessi…L’animale umano non lavora per caso, ma per necessità biologica, il lavoro lo definisce come animale, come il nutrirsi d’erba specifica la fisiologia del ruminante..E se non c’è lavoro, la natura umana non si realizza. Il lavoro non è soltanto un mezzo attraverso cui l’umano si procura da vivere, è il suo modo di vivere come umano. Non è un rimedio o un fastidio..Ci sono due condizioni perché il lavoro umano rimanga umano e quindi rimanga naturale: 1) che il lavoro mantenga il suo carattere intrinsecamente sociale; 2) che l’oggetto prodotto dal lavoro rimanga a disposizione di chi l’ha prodotto (pp.122-123-141-142-147-148-152)».

Qui l’esaltazione del lavoro assume toni epici e paradossali, andando ben oltre lo stesso Marx e persino l’operaismo novecentesco più unilaterale. Che l’operaio «realizzi la propria umanità con il lavoro» mi pare una sorta di bestemmia nei confronti di chi, se potesse, eviterebbe con entusiasmo di avere qualsiasi dovere lavorativo. A meno di far coincidere il lavoro con qualsiasi libera attività di uomini e donne – ma allora staremmo parlando  di opere, di opus contrapposto proprio al labor -sconcerta la mitologia “cimattiana” delle proprietà palingenetiche del lavoro: metterlo in questa veste al centro della società comunista auspicata appare, tanto più dopo la penosa esperienza dello stakhanovismo sovietico, davvero respingente. E altrettanto lo è questa specie di neo-Medioevo comunista in cui ognuno/a dovrebbe prodursi da sé gli oggetti necessari per vivere, tutti «a disposizione di chi li ha prodotti» affinché il lavoro rimanga «umano e naturale». In verità, quel liberarsi dal lavoro, che nell’anticapitalismo post-‘68 europeo e occidentale è risuonato con grande frequenza nei movimenti dei salariati e degli studenti, mi sembra di gran lunga più umano e (beni)comunista di ogni recupero della mitologia lavorista. Esso intende appunto liberare l’impiego del tempo di vita proprio da obblighi lavoristi, limitando al minimo indispensabile questi ultimi (ho già ricordato in Benicomunismo e in altri testi come Keynes sfottesse le smanie per il lavoro, suggerendo che “tre ore al giorno dovrebbero bastare per placarle34), piuttosto che vedersi costretti, persino più che nel capitalismo, a dedicare gran parte di tale tempo a prodursi da soli gli oggetti necessari per una esistenza dignitosa. E questo culto del lavoro (e in particolare di quello operaio e manuale, il fabbricarsi gli oggetti da soli) si ripresenta vistosamente nelle ultime pagine di Naturalmente comunisti.

«Il comunismo è “la soppressione positiva della proprietà privata, in quanto appropriazione della vita umana, e di ogni estraniazione e quindi il ritorno dell’uomo…alla sua esistenza umana, cioè sociale”33 (p.164)…Il comunismo è quindi il futuro biologico della specie umana perché “la soppressione della proprietà privata..rappresenta la completa emancipazione di tutti i sensi e di tutti gli attributi umani34. Nel comunismo il lavoro non diventa un oggetto estraneo rispetto al lavoratore, ma ne realizza l’umanità..è la prospettiva della “attualizzazione della realtà umana”35 (p.168-169)».

Facendosi forza di queste citazioni marxiane, Cimatti ripropone la stessa idealistica fiducia di Marx – il quale, però, a differenza nostra, non ebbe la possibilità di assistere alla inequivocabile smentita storica delle sue previsioni – nel potere palingenetico dell’abolizione della proprietà privata al fine della piena realizzazione umana e del trionfo del comunismo, come se l’intero Novecento fosse passato invano e i “socialismi reali” non avessero dimostrato in abbondanza come tale abolizione – consegnando i mezzi di produzione e la ricchezza collettiva allo Stato e alla neo-borghesia in esso insediata – non sia bastata né a realizzare la presunta, vera natura umana né, più semplicemente, a rendere la società più democratica, egualitaria, giusta e solidale. Posizione paradossale se confrontata, come segnalavo all’inizio, con l’apodittica (ma sacrosanta) affermazione dell’ultima di copertina (quella che in genere più consultano i potenziali lettori/trici) a proposito del «disastro umano e storico del comunismo reale».

Insomma, Cimatti, come tanti altri comunisti novecenteschi, ripropone un comunismo che non è niente di più o di altro rispetto agli auspici idealistici del Marx politico d’antan, non provando neanche ad accennare a qualcosa di diverso e di più fondato alla luce dei “disastri del comunismo reale”; e per certi versi va anche al di là del “non buttiamo il bambino con l’acqua sporca” perché ignora del tutto “l’acqua sporca”.

NOTE

1  Felice Cimatti, Naturalmente comunisti, Bruno Mondadori, Milano-Torino 2011, pp.1-2.

2  Piero Bernocchi, Benicomunismo, Massari Editore, Bolsena 2012.

3  K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, op.cit. p.75.

4  F.Cimatti, op.cit., p.5.

5  Edward Wilson, Sulla natura umana, Zanichelli, Bologna 1980, pag.5.

Ibidem, pag.6.

Ibid., pag.49.

8  Cit. da  John Tooby, Leda Cosmides e Jerome Barkow, Evolutionary Psychology and Conceptual Integration, in The Adapted Mind, Oxford University Press, New York 1992, pp.5-6.

9  Il Pleistocene è, nella scala dei tempi geologici, la prima delle due epoche in cui è suddiviso il Quaternario. E’ compreso tra 2,58 milioni di anni fa e 11700 anni fa. La datazione della fine del Pleistocene viene fatta coincidere con l’arretramento dell’ultimo ghiacciaio continentale e corrisponde, in archeologia, alla fine dell’età paleolitica.

10  F.Cimatti, op.cit.,pag.17.

11  E.Wilson, op.cit., pp.111-117.

12  F.Cimatti, op.cit., pp.18-19-20.

13  Il concetto di aurea via di mezzo, attribuito dai discepoli a Confucio, è molto simile alla aurea mediocritas del poeta latino Orazio. Quest’ultima aveva un senso ben diverso dall’uso attuale che si fa di tale citazione (tratta dalle Odi 2,10, 5). In latino, infatti, la mediocritas non assumeva il valore spregiativo che ha l’italiano “mediocrità”, ma indicava lo “stare in una posizione intermedia”, mediante il tenersi lontani dagli eccessi, rispettando appunto “il giusto mezzo”. Anche per il confucianesimo la “via di mezzo aurea” intende esprimere un atteggiamento del genere di fronte alla vita, una moderazione ottimale nei giudizi e nelle posizioni prese al momento di valutare persone, cose e concetti.

14  Per saperne di più sulla antropologia del filosofo tedesco Arnold Gehlen si può leggere il suo libro più famoso e cioè L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Feltrinelli, Milano, 1983.

15  Arnold Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo,op.cit., p.60.

16  F.Cimatti, op.cit., pp.24-25.

17  F.Cassano, L’umiltà del male, Laterza, Bari 2011, pp.52-54.

18  A.Gehlen, op. cit., p.62.

19  Ibidem, p.63.

20  Ibid.

21  F.Cimatti, op.cit., pp.28-29-30.

22  A.Gehlen, Prospettive antropologiche, Il Mulino, Bologna 2005, p.91.

23  Thomas Hobbes, Leviatano, Laterza, Bari 1974, p.108.

24  Ibidem, p.109.

25  Ibid., pp.112-113.

26  F.Cimatti, op.cit., pp.102-103.

27  Gustavo Zagrebelsky, Il valore della dignità, in La Repubblica, 12 settembre 2014

28  Franco Russo, I fatti, poi le interpretazioni, in Oltre il capitalismo, Massari Editore, Bolsena 2015, p.385.

29  M.Hauser-N. Chomsky-T.Fitch, The Faculty of Language: What Is It, Who Has It and How Did It Evolve?, in Science, 298, 2002, p.1571.

30  Ibidem.

31  F.Cimatti, op.cit., pp.38-39-43.

32  K.Marx-F.Engels, Manifesto…, op.cit., pp.58-59.

33  F.Cimatti, op.cit., pp.47-52-53.

34  «Il problema economico non è il problema permanente della razza umana. Gli indefessi creatori di ricchezza potranno portarci tutti, al loro seguito, in seno all’abbondanza economica. Ma saranno coloro che sanno tenere in vita e portare a perfezione l’arte stessa della vita, e che non si vendono in cambio dei mezzi di vita, a poter godere dell’abbondanza quando verrà…Per ancora molte generazioni l’istinto del vecchi Adamo rimarrà così forte che avremo bisogno di un qualche lavoro per essere soddisfatti. Turni di tre ore al giorno e settimana lavorativa di quindici ore possono tenere a bada il problema per un buon periodo di tempo…Quando l’accumulazione di ricchezza non rivestirà più un significato sociale importante, interverranno profondi mutamenti nel codice morale. L’amore per il denaro come possesso, e non come mezzo per godere i piaceri della vita, sarà considerato una passione morbosa, un po’ ripugnante, una di quelle propensioni a metà criminali e a metà patologiche che si consegnano con un brivido allo specialista di malattie mentali…Rivaluteremo i fini sui mezzi e preferiremo il bene all’utile. Renderemo onore a chi saprà insegnarci a cogliere l’ora e il giorno, alla gente meravigliosa capace di trarre piacere diretto dalle cose. Ma attenzione! Il momento non è ancora giunto. Per almeno altri cento anni dovremo fingere che il giusto è sbagliato e lo sbagliato è giusto, perché quel che è sbagliato è utile, e quel che giusto no (John Maynard Keynes, “Prospettive economiche per i nostri nipoti”- 1930)”».