Sono stato uno dei protagonisti del movimento del 1977, il referente principale a Roma di un’area di “centrosinistra”1, stretta tra la “sinistra” dei vari gruppi dell’Autonomia – inadatta a guidare un movimento di massa complesso, e incapace di accettare la democrazia assembleare, la coesistenza con le altre aree politiche e le indispensabili alleanze – e una “destra” di ciò che restava – dopo la débacle della lista di Democrazia Proletaria nelle elezioni del ‘76 – dei gruppi della sinistra extraparlamentare, certo disposta ad accettare la democrazia di movimento e la necessità di alleanze, ma screditata dalla ricerca, nell’anno precedente, di un’intesa con il Pci per un illusorio “governo delle sinistre”2. Ho discusso e scritto molto su quel movimento, a caldo ma anche negli anni successivi. Non l’ho fatto da “storico” ma da militante politico in prima fila, coinvolto appieno nelle aspre battagli e passioni che segnarono la vita breve ma assai intensa di quel movimento. Pur tuttavia, credo di aver conservato nei miei scritti quel tanto di obiettività necessaria per un’analisi accurata di ciò che accadde e del perché: ed ho denunciato, senza reticenze o ipocrisie, quanto e come le analisi completamente sballate di certe componenti dell’Autonomia, il loro autismo autolesionista, l’autoritarismo aggressivo, prevaricante e respingente nella gestione nel movimento, abbiano contribuito in maniera determinante ad una vera e propria eutanasia di un movimento assai promettente, emerso quasi d’incanto in uno snodo decisivo della storia politica e sociale italiana. Per chi ne voglia sapere di più e conoscere le mie interpretazioni dei fatti – con la descrizione delle responsabilità per la distruzione del movimento e per il “deserto” di piazza, di conflitti e di mobilitazioni che ne seguì per alcuni anni – può fare riferimento in primo luogo al mio scritto più organico e approfondito sull’argomento, il libro Dal ’77 in poi3. Qui tornerò sulle responsabilità interne dell’isolamento precoce e della perdita di credibilità e di consensi del movimento solo nei limiti dello strettamente necessario per trattare quello che è invece il vero argomento del capitolo: il comportamento guerresco e repressivo del Pci nei confronti di un movimento certo più radicale ed “estremo” rispetto a quello del ’68 e al modus operandi dei gruppi della sinistra extraparlamentare; ma non al punto da dover essere immesso nella categoria dei “nemici del popolo” e di suscitare una reazione così violenta, e così intrecciata alla repressione statale, come quella che, a partire dal 17 febbraio, il Pci scatenò nei nostri confronti e che contribuì in maniera determinante al nostro isolamento e all’ingigantirsi delle tendenze autistiche e avventuristiche interne, nell’auto-esaltazionedel “noi soli contro tutti”.

E per capire tale atteggiamento del gruppo dirigente del Partito comunista, dobbiamo ripartire dal cul de sac, descritto nel capitolo precedente, in cui il Pci si ritrovò, paradossalmente dopo la sua più grande vittoria elettorale. Il tanto desiderato compromesso storico, auspicato per tre anni da Berlinguer e dal suo gruppo dirigente e mai davvero digerito dalla base comunista, partorì un misero “appoggio esterno” ad un governo di solidarietà nazionale, ossia ad un monocolore Dc guidato da Andreotti, colui che fin dal 1973 aveva bocciato la proposta berlingueriana e che era considerato “l’uomo degli americani in Italia”. Ma Berlinguer, permettendo con l’astensione del Pci il varo del governo della non-sfiducia, non aveva ottenuto né vantaggi politici né la benevolenza degli Stati Uniti, mentre aveva agitato negativamente la base comunista, come ci hanno testimoniato dall’interno della Fgci e del Pci dell’epoca i ricordi di Capelli riportati più ampiamente nel capitolo precedente: «Comincia la stagione del governo “della non-sfiducia”. Un cambio radicale di clima politico: dopo una lunga, montante euforia…una brusca disillusione. Le grandi speranze sul Pci avevano portato solo ad un governo diretto dall’uomo che più di ogni altro impersonava la continuità democristiana». Dunque, dopo che la montagna della lunga marcia, pluridecennale, di avvicinamento al governo e all’intesa con il popolo democristiano aveva partorito il topolino della non-sfiducia ad un governo Andreotti, totem della peggior Dc e del “partito americano”, il gruppo dirigente del Pci si sentiva esposto alla contestazione verso tutto l’impianto strategico degli ultimi anni, diffusa tra un popolo comunista non in grado di aprire un conflitto aperto con il “quartier generale” ma in attesa che qualcosa succedesse e qualcuno smuovesse la palude politica in cui il Pci si era impantanato. E qualcosa successe e qualcuno sembrò arrivare, almeno dalle prime avvisaglie.

In un contesto politico che soggettivamente favoriva la nascita e la crescita di un movimento di opposizione al “compromesso storico” e allo sfascio provocato a sinistra dalla pesante sconfitta elettorale di Democrazia Proletaria, il casus belli che fece scattare il movimento a Roma – e ancor prima in altre città, da Palermo (il 24 dicembre venne occupata la Facoltà di Lettere) a Torino, Cagliari, Salerno (città in cui le facoltà umanistiche vennero occupate fin dal 31 gennaio), e a seguire partirono le occupazioni a Bologna, Milano, Padova, Firenze, Pisa – fu la Circolare del 3 dicembre 1976 di Franco Maria Malfatti, ministro della Pubblica Istruzione. La “riforma” annunciata in forma amministrativa introduceva il numero chiuso per gli accessi all’università, limitava la reiterazione degli esami, aumentava le tasse soprattutto per i fuori corso, espelleva un alto numero di docenti precari, differenziava tre livelli di laurea (diploma, laurea, dottorato di ricerca), eliminava gli appelli mensili, conquista degli anni precedenti, indispensabile per il mondo degli studenti lavoratori/trici. Il 1 febbraio un centinaio di fascisti assaltò la facoltà di Lettere in agitazione; ma respinti dagli studenti e in palese difficoltà, fecero uso delle armi, ferendo in maniera grave (una pallottola in testa, rimase in coma per parecchi giorni) Guido Bellachioma, studente di Legge, e in maniera meno grave altri due militanti del movimento universitario. Il giorno dopo, circa duemila studenti e militanti uscirono dall’Università e si diressero in corteo verso la vicina sede fascista di Via Sommacampagna, da cui provenivano gli aggressori del giorno prima. E a Piazza Indipendenza, per la seconda volta in due giorni, vennero usate armi da fuoco: nella sparatoria restarono feriti l’agente di polizia Arboletti il quale, sceso da una macchina aveva sparato in direzione dei manifestanti, e tra questi ultimi Paolo Tomassini e Leonardo “Daddo” Fortuna (poi arrestati) che aveva soccorso Tomassini cercando di portarlo fuori dalla zona degli scontri4.. Il giorno dopo il Pci aprì brutalmente lo scontro con il movimento nascente dalle pagine dell’Unità . Sotto il titolo «Sparatoria tra provocatori e polizia» pubblicò una micidiale dichiarazione di Ugo Pecchioli, nominato da poco responsabile Pci della sezione Problemi dello Stato (formula anodina per indicare colui che teneva direttamente i rapporti con gli apparati polizieschi di Stato) che, da lì in poi, per tutto il ’77 e durante il rapimento Moro, fu il diretto interlocutore di Francesco Cossiga, il borderline ministro dell’Interno, che a breve si sarebbe rivelato una sorta di aspirante mini-Pinochet e che tanta parte ebbe nelle sistematiche provocazioni e aggressioni al movimento.

«Ci troviamo in presenza di gruppi squadristici armati che tentano di innescare una nuova fase della strategia della tensione. Il raid dei fascisti del MSI all’Università e le violenze dei provocatori cosiddetti “autonomi”sono due volti della stessa realtà. Gli uni e gli altri puntano sulla violenza e sul terrorismo. Adoperano le armi, operano per accendere focolai di guerriglia. La matrice fascista è comune, analoghe sono le finalità. Occorre che i corpi preposti alla sicurezza delle istituzioni e dei cittadini, la polizia e la magistratura, facciano il loro dovere e sappiano prevenire e mettere in condizioni di non nuocere queste bande. Incomincino a chiudere i loro covi»5.

Nella stessa edizione, rincarava la dose l’editoriale non firmato, dal titolo Nemici della Repubblica:

«Contro il movimento di studenti e lavoratori ancora una volta si sono posti gli esponenti di quei cosiddetti “collettivi autonomi” i quali da tempo – da troppo tempo – svolgono un’azione parallela e concomitante con quella dei fascisti. Non sono due realtà opposte, è la stessa logica che li muove, l’odio per le istituzioni democratiche, la volontà di sovvertire la Repubblica con la guerriglia e il terrorismo»6.

Insomma, una dichiarazione di guerra: che sarebbe esplosa fragorosamente pochi giorni dopo, in conseguenza dell’evento a tutt’oggi considerato il più rilevante di tutta la storia del movimento ’77, la cacciata di Lama. Gli scontri di Piazza Indipendenza accelerarono le occupazioni in tutto l’Ateneo romano e anche in parecchie altre città. Ma a Roma il nucleo centrale del movimento (l’area che ho definito di “centrosinistra”), il più autentico, composto da studenti politicizzati ma intenzionati a non abbandonare il terreno universitario (anche se la circolare Ruberti era stata “congelata”) si trovò a battagliare su due fronti: da una parte le aree legate alla Fgci, al Pci e alla Cgil , intenzionate a “normalizzare” la situazione; e dall’altro le aree dell’Autonomia, poco o nulla interessate alle questioni scolastico-universitarie, ma desiderose di usare il movimento come arma di lotta complessiva contro il governo, il “compromesso storico” e i sindacati, come catalizzatore di una rivolta generale. L’equilibrio precario tra queste componenti si frantumò quando, sciaguratamente, il Pci decise di forzare la mano al movimento, utilizzando la Cgil e il suo segretario generale Luciano Lama, di cui ci venne improvvisamente annunciata la venuta, senza alcun tentativo di dialogo e addirittura scavalcando anche le remore della Fgci che, per le testimonianze che raccolsi all’epoca ma anche per quelle successive, cercò di convincere il Pci a desistere da una così clamorosa prova di arroganza come l’invasione manu militari dell’Università:

«La situazione precipitò all’Università di Roma. Il Pci romano non accettava quell’occupazione, si mosse per rimuoverla e ingaggiò un braccio di ferro per affermare il proprio diritto, diremmo oggi, all’agibilità politica in uno dei luoghi strategici della vita pubblica romana, uno dei punti di forza del proprio radicamento nella città…Per noi della Fgci fu un passaggio assai arduo. Non eravamo stati noi a spingere al braccio di ferro, anzi avevamo cercato di dissuadere il partito da quella infelice prova di forza con Luciano Lama»7.

E invece la prova di forza venne imposta, soprattutto a noi. Il 15 febbraio militanti del Pci romano si presentarono all’Università in corteo, riunendosi poi a Giurisprudenza in un’assemblea, che oltre a esprimere «ferma condanna delle aggressioni ai docenti democratici e degli atti di vandalismo in alcune facoltà» da parte del movimento, annunciò un cosiddetto «confronto del segretario generale della Cgil con gli studenti» che si sarebbe svolto due giorni dopo. Il giorno seguente il movimento si riunì in una sorta di assemblea generale permanente, che, alternata con riunioni di facoltà, si protrasse fino a tarda notte. Era ben chiaro a tutti/e che si trattava di uno smaccato tentativo di normalizzazione e repressione diretta, e che di dialogo e «confronto con gli studenti» non ne avremmo visto manco l’ombra. Ma le divergenze erano su come neutralizzare l’operazione. Alla fine, si trovò un’intesa su un comunicato del Comitato di Lettere che tra l’altro diceva: «Se Lama crede di venire all’università per fare un’operazione di polizia, il movimento saprà rispondergli in modo adeguato. Nel caso contrario, sfidiamo Lama a rendere conto della linea del compromesso sindacale agli studenti in lotta»8. Delle due ipotesi si verificò la prima, e con modalità che superarono anche le nostre più pessimistiche previsioni.

«Non erano ancora le 8 del mattino, e già affluiva, inquadrato militarmente, un imponente servizio d’ordine sindacale (in realtà composto per lo più da membri del servizio d’ordine del Pci romano) insieme – come avremmo scoperto poi – a numerosi lavoratori convocati d’urgenza mediante telegrammi alle sezioni sindacali, che pensavano di dover difendere Lama da possibili attacchi fascisti…L’ingresso di Lama all’Università, ricordava, per prosopopea e schieramento di forze, gli spostamenti dei capi di Stato: cordoni fittissimi che tenevano alla larga chiunque, vari strati di guardie del corpo, grande ostentazione di arroganza. Qualsiasi proposta di dibattito comune e di un intervento da parte del movimento era stata respinta sprezzantemente»9.

Per un po’, il movimento reagì con pazienza e molta ironia, improvvisando un contro-comizio intorno a un carrello con una scala, dove gli “indiani metropolitani” avevano collocato un pupazzo con la scritta «I Lama stanno nel Tibet». Ma il servizio d’ordine del Pci volle strafare, caricò il gruppo lì raccolto, ferì alcuni e distrusse il pupazzo. E in contemporanea Lama diceva cose del genere: «Dobbiamo battere il fascismo, le tentazioni reazionarie, le provocazioni eversive, ogni violenza. Chi sfascia le facoltà, non colpisce Malfatti ma la causa degli studenti».

«La risposta divenne inevitabile e la collera del movimento esplose. E mentre Lama chiudeva precipitosamente il comizio e veniva portato via in gran fretta, il servizio d’ordine, formato oramai solo da attivisti del Pci, fu travolto e il camioncino sfasciato. Ma nessuno infierì su quegli attivisti che, in mezzo alla derisione generale, se ne andarono indenni, spingendo a mano il camioncino con le ruote bucate, con facce da cani bastonati e la coda tra le gambe»10.

Subito dopo, la polizia entrava nell’Università e la sgomberava. E il Pci partì all’assalto: l’Unità, trasudando veleno e furia per l’”affronto” subito, stravolse completamente la giornata con titoli e sottotitoli11 di questo tenore:«L’ignobile attacco nell’Università contro la manifestazione del sindacato unitario e degli studenti»; «Una sessantina di feriti nell’assalto compiuto da duecento provocatori armati contro la folla che aveva ascoltato il comizio di Lama»; «Ferma condanna in tutto il Paese dell’aggressione squadristica»; «Ingenti devastazioni nelle facoltà che sono state sgomberate da polizia e carabinieri»; «Il pericolo che corre la democrazia quando gruppi squadristici tentano di organizzare sbandati di ogni tipo»; il tutto collegato e ricucito dall’editoriale di Aldo Tortorella , del seguente tenore:

«I fatti all’Università di Roma sono estremamente gravi. L’aggressione proditoria e violenta ad una democratica e pacifica manifestazione sindacale ha la natura di un’impresa squadristica. Tale aggressione è stata compiuta da ben precisi e individuati gruppi, ben conosciuti e condannati da tempo da tutte le forze democratiche e isolati dalla grande massa degli studenti…Profonde sono le cause del malessere delle masse studentesche giovanili. Ma cosa diversa e opposta è il manifestarsi di determinati e ben individuati gruppi, alcuni dei quali di antica origine, i quali si sono dati un’organizzazione militaresca, armata di armi proprie e improprie, e sono quelli che hanno assaltato proditoriamente la manifestazione sindacale all’Università di Roma. Essi vanno giudicati per i loro atti che sono squadristici. Sono contro tutte le istituzioni democratiche, contro tutti i partiti, contro i sindacati, contro i comunisti. E questo essere “contro” si affida alla violenza. Dove é la differenza, dunque, tra questi gruppi e le posizioni, ben note, all’origine dei movimenti fascisti? Questi gruppi si professano rivoluzionari e antiborghesi, ma non diversamente avveniva al primo sorgere di quella che veniva definita la “rivoluzione” dell’arditismo fascista»12.

Allo “sdegno” e alla furia del Pci fece subito eco Cossiga che, dopo aver immediatamente – come se avesse ricevuto un imperioso mandato dal gruppo dirigente comunista – fatto sgomberare l’Università, dette il via al lungo elenco, che sarebbe durato tutto l’anno, di pesanti provocazioni verbali, sempre accompagnate da derisione e disprezzo, nei confronti del movimento, con una dichiarazione che sembrava partorita più da un bulletto di quarta categoria che da un ministro dell’Interno. Oltre ad averci dato dei “conigli” – perché, di fronte ai blindati e agli agenti che sgomberavano a mano armata l’Università, ce ne andammo ad Architettura, a Valle Giulia, invece di combatterli a mani nude -, quello che poi sarebbe divenuto anni dopo il presidente della Repubblica più “disturbato” e schizoide di sempre, aggiunse nella veste delicatissima di gestore dell’ordine pubblico: «Sappiano questi signori che non permetteremo che l’università diventi un covo di indiani metropolitani, freaks, hippies». Si inaugurava così un sodalizio tra Pci e ministero dell’Interno che, attraverso la simbiosi tra Cossiga e Pecchioli, per tutto l’anno – e anche successivamente, durante il rapimento Moro – almeno un “compromesso storico” tra Dc e Pci lo realizzò, anche se non già sul piano di possibili miglioramenti sociali ma su quello della repressione sistematica del movimento e dei conflitti sociali e politici.

Però, fino allo sciagurato autolesionismo di significativi settori di movimento del 12 marzo, le cose non andarono come il Pci sperava: anzi. Aiutarono molto le testimonianze dei giornalisti e fotografi presenti all’Università, le riprese audio e video effettuate per tutta la mattinata; ma a spostare una vasta area di opinione verso il movimento contribuirono vari elementi puramente politici. In primo luogo, si aprì un contenzioso aspro tra i militanti sindacali della Cgil, mandati allo sbaraglio e ai quali era stato fatto credere che all’Università ci fossero davvero i fascisti, e la Federazione romana del Pci che, da parte sua, venne presa di petto, per il suo avventurismo incosciente e per il fallimento pratico, anche all’interno del Pci nazionale. Ma soprattutto quel popolo comunista, fortemente critico nei confronti del “compromesso storico”, pensò che un movimento così ostile al governo, al patto Dc-Pci e alla “moderazione” della Cgil, potesse diventare un interlocutore molto interessante e un ostacolo serio ai crescenti e sterili cedimenti politici e sindacali di casa propria, dai Berlinguer ai Lama, sul quale si addensarono tutti gli strali di chi non gli perdonava non già di aver tentato di silenziare e far sgonfiare il movimento, ma di non esserci riuscito, anzi di averlo potenziato e di avergli offerto una platea nazionale di rilievo. Che è poi lo stesso appunto che il Pci si sentì fare, a partire dalle colonne del Corriere della Sera, dai potentati economico-politici che avevano visto di buon occhio il sostegno del Pci al governo Andreotti, pensando che se ne potesse ricavare un lungo periodo di pace sociale. E invece…Cosicché, il Pci si trovò attaccato da sinistra e da destra, reagendo istericamente sull’Unitàin primo luogo proprio contro il Corriere della Sera (e con particolare acredine contro Giuliano Zincone, il giornalista di un certo calibro che più seguì il movimento nelle prime fasi) e “altri giornali borghesi che hanno concorso con qualche foglio dei gruppi della cosiddetta ultrasinistra – con singolare convergenze di argomentazioni e di sollecitazioni – a valorizzare le spinte più irrazionali presenti in taluni settori del movimento studentesco e a fomentare il rifiuto di qualsiasi tentativo di colloquio e di rapporto con il movimento operaio»13.

Fu questo il momento di massima difficoltà del Pci in quegli anni, persino peggiore che nei giorni seguenti al varo del governo “della non sfiducia”, perché ora c’era di mezzo un forte movimento che si contrapponeva alla sua strategia e che veniva guardato con interesse da buona parte della base Pci e Cgil, che usciva rafforzato dalla cacciata di Lama, che si riprendeva due giorni dopo l’Università con un’imponente manifestazione di circa 50 mila persone per le strade di Roma e con un crescente consenso popolare. Anche perché in quella fase ebbe l’intelligenza, che purtroppo avrebbe smarrito solo una ventina di giorni dopo, di indietreggiare dopo quell’indiscutibile prova di forza per prepararsi ad avanzare di nuovo. Disgraziatamente, significativi settori del movimento non furono capaci di trarre da quegli eventi una lezione duratura: e cioè che non fosse buona tattica accettare sfide di qualsiasi genere, dei Cossiga o dei Pecchioli/Berlinguer; che, una volta così espostisi con un movimento di massa radicale, bisognasse comportarsi di volta in volta da “conigli” o da “volpi”, da “leoni” ma anche da “serpenti” all’occorrenza; per dividere l’avversario, unire e allargare il proprio fronte, sfruttare appieno la grande occasione che si presentava e evitare di comportarsi da ragazzi della via Paal, intenzionati solo a battersi bene in una guerra persa in partenza e per giunta sul terreno scelto dall’avversario.

Cosa che sciaguratamente accadde appunto il 12 marzo, durante la manifestazione nazionale del movimento messa in cantiere da giorni e alla quale per la prima volta garantivano la partecipazione decine di consigli di fabbrica di Roma e del Lazio; ma sulle quale precipitarono gli avvenimenti tragici del giorno prima, quando a Bologna – l’altra città dove era frontale lo scontro tra Pci e movimento, e in forme anche più pesanti che a Roma, visto che Bologna era amministrata dal Pci che per tre decenni l’aveva controllata in modo ferreo e ora aveva cercato in tutti i modi di far terra bruciata intorno al movimento – venne ucciso dai carabinieri, durante una manifestazione, Francesco Lorusso, militante di Lotta Continua. Cosicché, in nessuna delle strutture di base del movimento si riuscì a stabilire una gestione comune della manifestazione, riemersero apertamente le strutture di area politica e prevalsero le spinte più irrazionali e avventuriste e il desiderio di vendetta, che vennero usati da chi predicava da tempo l’innalzamento continuo dello scontro con lo Stato, in un delirio insurrezionalista che mandò allo sbaraglio più di centomila persone venute da tutta Italia, disperdendole in uno sciagurato rosario di guerricciole, con ampio uso delle armi, assalti ad armerie e negozi, auto bruciate e tutta una serie di episodi da micro-guerriglia che in un colpo solo dispersero tutto il credito accumulato dal movimento in un mese e mezzo.

«L’apparato repressivo statale aveva reso il clima irrespirabile, assassinando Francesco Lorusso e provocando il desiderio di vendetta: ma la decisione, presa fuori dalle sedi di movimento, di mandare allo sbaraglio centomila persone, di utilizzare brutalmente la copertura del corteo per accendere a freddo una serie di guerricciole intorno ad obiettivi peraltro insignificanti, lasciando poi esposte alla reazione repressiva decine di migliaia di persone che neanche conoscevano le vie della città, fu errore imperdonabile, che mise drammaticamente in luce l’immaturità e l’avventurismo di una parte consistente del quadro politicizzato del movimento. Con il 12 marzo, la forza e la credibilità conquistate finché ci si era mossi contro l’austerità, il compromesso storico e il governo Andreotti si incrinarono rapidamente. La maggioranza di coloro che si erano fin lì mobilitati cominciò a sentirsi tagliata fuori da uno scontro di cui non vedeva il filo strategico. A partire da quella manifestazione il movimento cominciò a perdere il collegamento con buona parte degli strati sociali mobilitati»14.

Lo scontro politico interno al movimento, fin dal giorno dopo, fu fortissimo: quasi tutti i Collettivi universitari si dissociarono dalla gestione “guerrigliera” del corteo prendendo di petto apertamente le derive da “partito armato” e il disprezzo verso le decisioni collettive; e lo stesso fecero le femministe, gli “indiani metropolitani”, per non parlare dei lavoratori che, fidandosi di noi, avevano coinvolto i loro Consigli di fabbrica nella manicomiale giornata di piazza. Ma purtroppo i danni furono irreversibili, anche perché era chiaro a tutti/e quanto l’unità del movimento, da allora in poi, sarebbe stata in balìa di altri comportamenti avventuristici e altrettanto incontrollabili. E poi nessuno/a, che non fosse obnubilato/a dalla suicida idea di innalzare il livello di scontro con l’apparato statale, poteva ignorare come i nostri avversari – e in primo luogo il Pci che finalmente poteva dimostrare alla base scontenta che fuori dalla sua strategia c’era solo il caos – avrebbero usato la giornata per bruciare ogni spazio intorno al movimento. Cosa che il Pci fece in grande stile due giorni dopo nel corso di un Comitato centrale (14-16 marzo), eufemisticamente convocato per discutere “la questione giovanile” ma che venne in realtà usato per mettere la pietra tombale sul movimento e su chi, all’interno del partito e della Fgci, aveva chiesto di tenere aperto con esso un dialogo, a partire dalla relazione di D’Alema fino all’intervento brutale di Paolo Bufalini. E, pressoché in contemporanea a Bologna, il sindaco Pci Zangheri portava in piazza più di duecentomila persone contro i “teppisti e provocatori” del movimento, utilizzando pro domo sua persino la commemorazione di Francesco Lorusso e la partecipazione di massa ai suoi funerali. Ecco alcuni stralci della relazione di D’Alema, nella veste di segretario nazionale della Fgci:

«Ci troviamo di fronte ad una fase nuova e più acuta della strategia della tensione che vuole far leva sulla rabbia e la rivolta di strati giovanili per creare un clima di violenza e di paura e gettare il Paese in una fase drammatica che aprirebbe la strada a forze reazionarie che intendono colpire la forza del movimento operaio…Colpisce la carica di violenza e intolleranza di cui settori dell’attuale movimento sono portatori. I fatti di questi giorni – Bologna, teatro di una vera e propria guerriglia per l’azione di gruppi armati; Roma, dove squadre di provocatori armati hanno trasformato la protesta in un assalto eversivo contro lo Stato democratico – sono soltanto gli episodi culminanti di una serie di atti squadristici contro i comunisti e le organizzazioni sindacali»15.

Ancora più esplicitamente aggressivo e “guerresco” l’intervento di Paolo Bufalini, che indicò apertamente chi avrebbe dovuto risolvere la faccenda:

«A differenza che nel ’68, quando si sapeva chi fossero i dirigenti del movimento studentesco, oggi a dare l’impronta sono squadre di terroristi e di provocatori, persone che spesso coprono la faccia col passamontagna. Chi sono costoro? Ne sappiamo troppo poco…Ma soprattutto è inquietante che le preposte forze e autorità dello Stato non facciano luce su questa torbida trama eversiva, non ne identifichino la centrale operativa…Che cosa si deve fare allora? Noi escludiamo fermamente l’autodifesa armata di massa: si innescherebbe un processo di violenza fino a rendere possibile forme di guerra civile…Tocca alle forze di polizia difendere l’ordine democratico dagli attacchi di squadre nemiche della Repubblica nata dalla Resistenza. La polizia che difende l’ordine democratico difende un patrimonio nostro, della classe operaia e della nazione»16.

La morsa Pci-apparati di polizia, impersonata dalla coppia Pecchioli-Cossiga, si strinse in modo inesorabile intorno ad un movimento irrimediabilmente spaccato, di botto isolatissimo e abbandonato anche da tanti che lo avevano sostenuto. Avremmo potuto uscirne? In astratto forse, in concreto ci volevano quelle doti che, in modo figurativamente “animalesco”, ho elencato poche righe fa. E che invece non prevalsero. Poche settimane dopo altre azioni armate a Roma17 e a Milano18, con l’uccisone di due poliziotti, ci isolarono totalmente, facendo terra bruciata senza scampo anche intorno a chi cercò fino all’ultimo di recuperare una qualche vivibilità interna e che comunque riteneva cruciale sottrarre più gente possibile al “delirio insurrezionalista”. Nessuno ci aiutò dall’esterno: anzi, a parte la guerra aperta del Pci, che ovviamente approfittò pesantemente degli ultimi omicidi, tutte le sollecitazioni ci spingevano solo a rompere una volta per tutte il movimento, lasciando da soli coloro che lo stavano portando al massacro. Ci provammo ancora in autunno a recuperare il recuperabile, in sintonia con il movimento bolognese, che tentò l’impresa di un rilancio del movimento con un Convegno nazionale (anche con ospiti internazionali, 23-25 settembre) nella loro città19.. La partecipazione fu notevole: ma politicamente il tentativo di trovare un filo comune si risolse in una mega-assemblea al Palasport in cui, oltre ad assistere ad una smaccata e insopportabile manifestazione di solidarietà e appoggio al “partito armato” e alle Brigate Rosse, fummo coinvolti in due giorni di scontri politici e fisici che confermarono l’impossibilità di convivenza con chi credeva fermamente nella strategia, a viso aperto o clandestina, di assalto allo Stato. Convivenza che comunque si trascinò fino al 2 dicembre20, quando l’ennesimo episodio di intolleranza e aggressione nei confronti delle componenti del movimento che conservavano razionalità e piedi per terra, ci costrinsero alla definitiva separazione. E ciò che restava del movimento sarebbe stato travolto a breve dal rapimento e uccisione di Aldo Moro e dal clima di chiusura totale degli spazi per i movimenti di massa, poi durato per quasi un decennio. Al momento, il Pci finì dunque per vincere la sua “guerra”. Ma fu la classica vittoria di Pirro, perché il Partito comunista aveva segato una parte significativa dell’albero su cui fin dal ’68 si era installato, usando la forze dei movimenti conflittuali alla sua sinistra per crescere nelle istituzioni e nella società, come argine, controllore e “badante” degli “scapestrati”.

Note

1 Ho definito di centrosinistra (piuttosto che centrista) questa area – che fu maggioritaria nel movimento finché non iniziò l’opera di “epurazione” nei confronti di gran parte dei partecipanti, dagli “indiani metropolitani” alle femministe fino a tanti militanti della sinistra extraparlamentare pre-’77 – perché avevamo posizioni radicali come l’Autonomia nei confronti del “compromesso storico”, del Pci e della Cgil, ma nel contempo avevamo a cuore, come deve fare ogni centro nei movimenti, la tenuta unitaria di tutte le componenti di esso, la ricerca delle alleanze per evitare l’isolamento; e respingevamo il disprezzo per la democrazia assembleare, la logica dell’”epurando, ci rafforziamo” e l’avventurismo militaresco che apparve lampante fin dal 12 marzo, in particolare a Roma, che, insieme a Bologna, era l’epicentro di un movimento che non riuscì a sfondare in egual misura nelle principali altre città.

2 cfr. per riferimenti più puntuali su questo passaggio il capitolo precedente.

3 Piero Bernocchi, Dal’77 in poi, Massari editore, Bolsena, 1997. Oltre alla ricostruzione dei principali eventi e tappe del movimento, una buona parte del libro è dedicata ad un’analisi strutturale dei soggetti sociali in campo, delle loro motivazioni economiche e politiche e dell’azione delle varie componenti interne e esterne nelle varie fasi del ‘77. Per rendere più agile la trattazione, la forma usata è stata quella di un’ampia intervista, che sottintendeva un dialogo, fattami da Roberto Massari, anch’esso partecipe, con posizioni spesso non collimanti con le mie, almeno della prima parte del movimento.

4 La foto, obiettivamente di forte impatto, di Fortuna che si ferma a tirar su con il braccio sinistro Tomassini, ferito alla gamba da un proiettile, mentre con la destra impugna una pistola, venne scattata da Tano D’Amico, il grande “cantore” per immagini del movimento, che però non la fece circolare per 20 anni. Ma di foto ne aveva fatte anche la polizia e Fortuna e Tomassini si fecero sette anni di galera.

5 Ugo Pecchioli, l’Unità, 3 febbraio 1977

6 Editoriale, ivi

7 Ferruccio Capelli, op.cit.

8 P. Bernocchi, op.cit. pag.162

9 Ivi , pag.45

10 Ivi, pag.46

11 l’Unità, 19 febbraio 1977

12 Aldo Tortorella, Saper vedere il pericolo, l’Unità, 19 febbraio 1977

13 A. Pi. , Del “Corriere della sera” e di altri, l’Unità, 19 febbraio 1977

14 P. Bernocchi, op.cit. pag.51

15 Massimo D’Alema, Relazione del 14 marzo al CC del Pci, l’Unità, 15 marzo 1977

16 Paolo Bufalini, Intervento del 15 marzo al CC del Pci, l’Unità, 16 marzo 1977

17 cfr. P. Bernocchi, Dal ’77 in poi, op. cit., pp.205-7.Il 21 aprile a Roma l’Università si riempì di studenti per occupare di nuovo alcune facoltà, in primo luogo Lettere. Ma la polizia irruppe per sgomberare le occupazioni e i presenti si spostarono nel vicino quartiere di San Lorenzo, ove partì un corteo, mentre altri radunavano di fronte all’Università, creando un affollamento che la polizia decise di sgomberare con una carica. A quel punto, un gruppo sparò uccidendo un poliziotto, Settimio Passamonti, e ferendo gravemente un altro. Un paio di ore dopo si svolse un’assemblea ad Architettura dove si palesò la spaccatura, frontale e irrimediabile, tra chi sosteneva che la giornata era stata «positiva perché il movimento ha dimostrato di saper reagire alle aggressioni poliziesche» e che comunque «lo scontro di classe ha raggiunto livelli tali da rendere l’uccisione del poliziotto un episodio quasi marginale»; e chi (il Comitato di Lettere e altri collettivi, con il mio intervento e quello di Raffaele Striano) attaccò «il disegno politico di alcuni settori del movimento di costringerlo ad uno scontro frontale con lo Stato, che, uccidendo oggi un agente, dà un colpo gravissimo e indifendibile al movimento, tanto più che la ripresa delle occupazioni doveva ampliare il fronte di lotta, dopo l’isolamento seguito alla giornata del 12 marzo». L’assemblea si concluse con una rissa e con la verifica che la divaricazione aperta il 12 marzo era oramai irreversibile, e non solo a Roma, epicentro con Bologna del movimento, e non avrebbe potuto far altro che aggravarsi. Il Comitato di Lettere approvò un comunicato, da me scritto, in cui affermava di «non riconoscersi affatto nella risposta armata data alla provocazione poliziesca, ritenendo, anzi, che la logica del continuo innalzamento del livello di scontro frontale con l’apparato statale porti al totale isolamento e poi alla distruzione del nostro movimento». E la riprova la dette due giorni dopo Cossiga che recuperò persino Pasolini per dichiarare guerra totale al movimento («D’ora in avanti, a chi attaccherà lo Stato con le armi, lo Stato risponderà nello stesso modo. Non sarà più consentito che i figli dei contadini meridionali vengano uccisi dai figli della borghesia romana») e imporre la sospensione dei diritti civili, vietando fino al 31 maggio qualsiasi manifestazione di piazza a Roma.

18 Ivi, pp.225-229. Il 14 maggio a Milano, durante un corteo per protestare contro l’arresto di Sergio Spazzali e Giovanni Cappelli, avvocati del Soccorso Rosso, alcuni manifestanti spararono contro la polizia che aveva caricato il corteo, uccidendo il vicebrigadiere Antonio Custrà, nella stessa giornata in cui si svolgeva a Roma la manifestazione di protesta contro l’uccisione di Giorgiana Masi, avvenuta due giorni prima, dopo che il sit-in convocato dai radicali – e al quale il movimento aveva deciso di partecipare per rompere i divieti di Cossiga di manifestare a Roma – era stato caricato dalla polizia. Numerose foto e testimonianze dimostrarono che a sparare, e non solo a Giorgiana, furono alcuni poliziotti in borghese ai quali Cossiga aveva dato via libera, in continuità con le dichiarazioni di guerra del 23 aprile. Queste rivelazioni avevano messo in grande difficoltà Cossiga e il governo e ridato spazio al movimento che, sull’onda dell’indignazione diffusa, era riuscito proprio il 14 a portare migliaia di persone a manifestare a Ponte Garibaldi, dove Giorgiana Masi era stata colpita. Ma lo spazio si richiuse subito a causa dall’omicidio di Custrà, che ridette fiato alla campagna di stampa contro il movimento e annullò l’effetto negativo che il comportamento dei poliziotti in borghese aveva suscitato anche in ambienti ben distanti dal movimento. Infatti, il giorno dopo tutti i giornali titolarono sui fatti di Milano, quasi ignorando la mobilitazione di Roma: uno spazio politico riconquistato a prezzo di grandissimi sforzi, e che era costato la vita ad una ragazza di 19 anni, venne così demolito ancora una volta per l’ennesima, sciagurata “esibizione armata” dall’interno del movimento.

19 cfr. Dal ’77 in poi, op. cit., pp.244-251.

20 Ivi, pp.264-269.