Nel primo saggio di questo volume, ho cercato di descrivere quello che a mio giudizio è stato il peccato originale del Pci: “peccato” le cui conseguenze si possono leggere in tutta la settantennale storia del Partito Comunista italiano ma che risaltano in particolare analizzando le sue espressioni ideologiche, strategiche e tattiche nel periodo che mediaticamente è stato definito il decennio rosso: e che va dall’esplosione del movimento del Sessantotto a quello del 1977, con il suo epilogo (e distruzione) l’anno successivo ad opera dell’intervento più violento e clamoroso dei gruppi terroristici italiani, l’uccisione di Aldo Moro e della sua scorta da parte delle Brigate Rosse. Credo che non si possa comprendere appieno il comportamento del Pci in quel decennio – e in particolare l’ostilità ai movimenti e ai gruppi della sinistra extraparlamentare, l’espulsione dei militanti del Manifesto, la freddezza “boicottante” verso i referendum radicali su divorzio e aborto, la strategia del “compromesso storico” e il grande contributo nella repressione del movimento del Settantasette e nel rifiuto di mediazioni per salvare la vita di Moro – senza far riferimento a quel peccato originale commesso in ragione delle catastrofiche modalità e tempi della propria nascita nel 1921 e della successiva sottomissione piena allo stalinismo trionfante in Urss. Caratteristiche che ne hanno determinato e condizionato tutte le fasi di vita e azione politica, fino alla ingloriosa, anonima e superficiale fine, proprio quando il Pci avrebbe dovuto fare finalmente, seppur in extremis, i conti con i propri “buchi neri” e peccati di origine, e intraprendere una strada almeno improntata ad un onesto socialismo democratico e libertario.

Ho parlato – e lo ripropongo – di peccato originale perché la nascita del Pci a mio parere venne segnata, per assoluta responsabilità del gruppo dirigente di allora, da tre elementi che avrebbero marchiato a fuoco tutta la successiva esistenza del partito: a) un ultra-sinistrismo estremamente settario, operaista fino all’incoscienza e al disprezzo totale di quasi tutti gli altri strati popolari o “piccolo-borghesi” (con la povertà esplicativa che questo termine ha sempre avuto nella storia del marxismo e tanto più del bolscevismo), e del tutto inconsapevole della realtà sociale e politica, italiana e internazionale, dell’epoca; b) una dipendenza totale dal gruppo dirigente dominante in Urss, proprio quando quest’ultimo aveva già mostrato il suo lato oscuro, eliminando spietatamente, in tre anni, ogni altra componente di sinistra che pur aveva partecipato attivamente alla rivoluzione del 1917 (anarchici, socialrivoluzionari, esponenti di soviet e consiliaristi, “menscevichi” di sinistra ecc.); dipendenza ancor più accentuata, fino alla sudditanza, in particolare per mano di Palmiro Togliatti (rapidamente convertitosi da ammiratore di Bucharin a stalinista fedele e brutale e deus ex machina del Pci fino alla morte), almeno fino agli anni ’70 del secolo scorso; c) un culto del partito, già in essere alla nascita e via via accentuato durante la clandestinità, ma mai dismesso successivamente, che ne rendeva il gruppo dirigente e larghissima parte dei militanti convinti della propria assoluta centralità ed esclusività nei processi di trasformazione sociale. Al punto da illudersi di costituire una sorta di prototipi di homo novus – intellettualmente e moralmente, quasi geneticamente – più avanti della restante umanità: e di conseguenza, del tutto indifferenti a vere strategie di coalizione e di alleanze politiche e sociali alla pari, innamorati della propria, ricercata e pretesa, egemonia, anche di fronte a indispensabili partner, molto spesso retrocessi, nel sentire di dirigenti e militanti, ad “utili idioti” da strumentalizzare e usare per i propri, presunti, “nobili” fini.

Il Pci e il Movimento stuidentesco

Senza tener conto di questo retroterra profondo, politico e mentale, non si spiegherebbe ad esempio come mai il Pci non abbia accolto con favore, direi anzi con caloroso entusiasmo, un grande movimento di massa, in larghissima prevalenza di giovani studenti, che voleva incontrare e abbracciare le sorti del movimento operaio e di chi intendesse lottare per la giustizia sociale, per l’eguaglianza, per l’internazionalismo, contro ogni imperialismo economico e militare, che si schierava con i popoli in lotta per la loro indipendenza nazionale, con il Vietnam in primissimo piano, con gli analoghi movimenti giovanili nel mondo, con le lotte dei neri americani. E che per giunta, già dopo poche settimane mostrava chiaramente di voler assumere una esplicita connotazione marxista. Certo, il movimento del ’68 aveva assunto, e coltivato in sé, alcuni paradossi, le cui conseguenze e i cui danni si sarebbero appalesati solo in seguito. Li ho personalmente analizzati in dettaglio nel mio “Per una critica del ‘681, a cui rimando per uno studio più approfondito, che contiene anche una esplicita autocritica per gli errori e le incomprensioni che io stesso, in quanto co-protagonista di quel movimento, vi ho immesso, con l’unica scusante della scarsa esperienza politica e ideologica con cui giunsi ventenne in quella storica e del tutto originale mobilitazione di massa. Ma, dovendo qui sintetizzare in poche righe il senso più profondo di quel rivolgimento italiano e internazionale, direi che il ’68 è stato un epocale atto di volontà, di forte soggettivismo politico e di potente accusa morale e culturale da parte di milioni di persone, basato sulla convinzione che il mondo, così come si presentava, non fosse accettabile, distruggesse più ricchezza di quanta ne creasse, e tenesse in un’ intollerabile miseria i tre quarti dell’umanità, pur avendo i mezzi materiali per il benessere di tutti/e, producendo in continuazione ingiustizia sociale, insopportabili differenze di reddito, violenza, guerre incessanti, corruzione, sopraffazione. Una tale collocazione ideale, politica e morale avrebbe dovuto “ingolosire” quanto mai un partito che, a parole, predicava analogo impegno, analoghe denunce e simili prospettive (la via italiana al socialismo). A maggior ragione perché tale denuncia morale e ideologica nei confronti della struttura sociale ed economica dominante non veniva attribuita dalla leadership del movimento alla stortura (al famoso legno torto irredimibile, a cui il pensiero conservatore ha sempre attribuito le ingiustizie sociali ed economiche imperversanti sul pianeta) della natura umana, ossia a un dato immodificabile e a-temporale dell’esistenza; ma allo specifico sistema di produzione capitalistico imperante, alla mercificazione globale a fini di profitto individuale, e alla conseguente dissipazione della ricchezza materiale e sociale collettiva e universale. Dunque – concludeva il pensiero dominante nel movimento – poiché tanta e tale ingiustizia è opera di una particolare organizzazione produttiva, economica e sociale, il mondo può e deve essere cambiato superando tale organizzazione. Cosa di meglio poteva desiderare un partito che per decenni più o meno questi ragionamenti aveva diffuso a livello popolare, tra milioni di persone che, però non avevano mai dato vita a movimenti di tale ampiezza, diffusione e estensione internazionale. E invece…

Invece, in modo apparentemente paradossale (ma non alla luce del “peccato originale” del Pci e del suo effettivo ruolo nell’Italia del dopoguerra), ad impedire una sintonia, anzi ad incentivare – dopo una fase di apparente interesse che vide il Pci anche diviso o almeno differenziato all’interno – prima una generale diffidenza e poi una crescente ostilità, furono le principali contraddizioni di un movimento che, nato profondamente libertario, con una gestione assemblearistica che sembrava voler negare tutti i modelli centralisti e “leninisti” di azione politica, nonché tutte le esperienze del “scialismo reale” sovietico e dell’Est europeo staliniane, si trasformò, anche piuttosto rapidamente, in una progressiva imitazione/variante proprio di quella storia e tradizione, dimostrando di non essere in grado di produrreun vero e significativo progetto di originale trasformazione sociale, economica e politica. Proprio mentre il “socialismo reale” ad Est, intorno alla Primavera di Praga, dava l’ennesima e oramai definitiva dimostrazione del proprio disastroso fallimento storico, noi – uso questo plurale includente per assumermi pure io la mia pur limitata parte di responsabilità – non riuscimmo, e non solo in Italia, neanche a delineare in nuce un progetto post-capitalistico che non fosse altro che un tentativo di abbellire quel comunismo novecentesco oramai demolito nella coscienza di miliardi di persone dallo stalinismo terzinternazionalista. Cosicché, già dal ‘69 il movimento finì per frantumarsi in una miriade di partitini e gruppetti, tutti ostili al “socialimperialismo” sovietico, ma ammiratori di una Cina fantasmatica e immaginifica, dominata da un maoismo nella realtà variante dello stalinismo sovietico, verso il quale però rimaneva nella sinistra extraparlamentare partitica oramai ben delineata, un’ambiguità latente: e al proposito, basterebbe ripensare al disinteresse che il Sessantotto italiano riservò alla “primavera di Praga”, una sorta di equidistanza tra Breznev e Dubcek, come se al fondo si ritenesse ancora che il “socialismo reale” costituisse un vero argine contro l’imperialismo USA e che in ogni caso ogni fuoriuscita da esso non potesse che essere “di destra”.

Queste contraddizioni, paradossi, ambiguità, ma soprattutto mutazioni progressive dei movimenti e della sinistra extraparlamentare spiegano, in simbiosi con i già abbondantemente citati “peccati originali” del Pci e con la reale funzione sociale e politica da esso assunta in Italia nel dopoguerra, alcune oscillazioni e anche differenziazioni interne del Pci nella prima fase del movimento sessantottino. In verità il Pci aveva cominciato a nutrire preoccupazioni per gli orientamenti dei “nuovi” giovani e per le difficoltà di rapporto con essi prima del 1968, manifestando due orientamenti ben distinti che andavano dalla diffidenza e neanche troppo velato allarme ad un interesse e ad un tentativo, seppur minoritari nel gruppo dirigente Pci, di trovare strumenti di contatto e di sintonia con il malessere giovanile diffuso.

«Nel marzo 1967, il segretario della Fgci (Federazione giovanile comunista italiana) Claudio Petruccioli2 aveva sottolineato il crescente disagio di studenti e giovani, tra istanze di rivolta e tentazioni di adattamento. Sullo sfondo, la loro insoddisfazione per la lentezza del rinnovamento della società italiana, l’attenzione rivolta al Pci ma anche una crescente insofferenza nei confronti delle forme tradizionali della politica…Un documento interno della Fgci nello stesso mese individuava nei movimenti giovanili “la spinta a porre il problema della partecipazione politica, della presenza diretta, continua, organizzata delle masse”. Di qui la disponibilità a trasformare la stessa Fcgi in “un’organizzazione unitaria della gioventù di sinistra, con diversi livelli di impegno politico e con più elastiche forme di partecipazione”3»4.

E nello stesso mese, dopo che Luca Pavolini aveva aperto la discussione a proposito dell’atteggiamento delle sezioni del Pci nei confronti dei giovani, un articolo di Giancarlo Pajetta su Rinascita5 riprendeva il tema, sollecitando la problematicità del rapporto con le masse giovanili e la necessità di trovare la via di un dialogo costruttivo. Ma proprio dalle colonne di Rinascita, nel numero successivo, un esponente in ascesa tra i Giovani comunisti lombardi (e che sarebbe poi diventato segretario del Pci di Milano tra il 1975 e il 1981), Riccardo Terzi, chiariva i termini di un dissidio che sarebbe poi esploso nell’anno successivo, al crescere e al radicalizzarsi del movimento partito dalle università.

« Ci si deve porre un primo interrogativo: in che misura esiste ed è reale la questione giovanile, e cioè il rapporto tra le diverse generazioni? Spesso, nel partito, si risponde a questa domanda con una specie di insofferenza, negando ogni autonomia ai problemi della gioventù. Lo scontro nella società italiana riguarda le classi, le forze politiche, non le generazioni: allora, perché tanta agitazione per un problema che rischia di essere fittizio, che può farci deviare dalle questioni vere? E perché i giovani non riescono a capire che soltanto nell’azione politica possono trovare la loro prospettiva?»6.

Bastarono pochi mesi per rendere evidente che non già di un problema “fittizio” che faceva “deviare dalle cose vere”, si trattava, ma di un tema assolutamente centrale, che veniva ingigantito, anche agli occhi dei più conservatori e passatisti dei dirigenti e militanti del Pci, dal fatto che, una volta scesi in campo in massa, noi “sessantottini” avevamo rapidamente mostrato di essere ben coscienti del fatto che potevamo «soltanto nell’azione politica trovare una prospettiva»; ma che, nel contempo, intendevamo (e uso il noi visto che sia io sia Roberto Massari, co-autore di questo libro, fummo impegnati nel movimento fin dal primo giorno) farlo in maniera ben diversa, e addirittura oppositiva, rispetto alle modalità classiche del Pci e della politica di partito. Il Pci provò a recuperare il tempo e lo spazio perduti e a sintonizzarsi su quanto stava accadendo, nelle università, nelle scuole, nelle piazze e nella società: ma sempre mantenendo una vistosa, e più o meno tacitamente concordata, ambivalenza, manifestazione lampante di quella doppiezza, ritenuta “marchio di fabbrica” togliattiano, ma a sua volta inevitabile conseguenza sia dei peccati originali del Pci sia del ruolo geopolitico nazionale e internazionale assunto nel dopoguerra (e fino al suo scioglimento) dal Partito comunista, nel quadro della divisione dell’Europa sancita con il Patto di Jalta. I primi evidenti segnali dell’agitazione provocata nelle file del Pci e della Fgci dal potente affacciarsi del movimento sulla scena sociale e politica italiana si manifestarono fin dall’inizio di febbraio (quando iniziarono le occupazioni delle facoltà a Roma), anche se il movimento in alcune università italiane si era già rivelato nell’autunno 1967 con la lotta alla riforma Gui:

« A febbraio si tiene alle Frattocchie, sede della scuola quadri del Pci, una prima e tumultuosa riunione degli studenti comunisti (della Fgci) sui “ritardi del partito” e il rapporto con il movimento. Le conclusioni di Natta sono interrotte più volte. Poco dopo, la Direzione del Pci dedica un interessante confronto al movimento studentesco. Per Giorgio Napolitano, esso pone “problemi essenziali”, ma vanno respinte l’idea della “classe studentesca” come classe rivoluzionaria che si sostituisce alla classe operaia, considerata “integrata”, la “sfiducia verso tutti i partiti”, il rifiuto di “ogni forma di direzione e di organizzazione”. Petruccioli vede nel movimento “una egemonia culturale delle classi dirigenti”. E tuttavia, aggiunge, alla base della diffidenza verso i partiti, vi è “una crisi della democrazia”: lo slogan del “potere studentesco esprime un’istanza politica generale volta a dare il potere alle masse organizzate nella scuola, nelle fabbriche…è in gioco il rapporto società civile e società politica…bisogna reimpostare la visione leninista del problema”. Secondo Amendola, invece, “si tratta di discutere, polemizzare senza intolleranza ma riaffermando le nostre posizioni”, contrastando il massimalismo»7.

In realtà, gran parte di queste critiche, più o meno accentuate che fossero, erano palesemente strumentali, intese a sviare il cuore del problema. I dirigenti del Pci non potevano non sapere, per quanto non avessero nel movimento antenne particolarmente sofisticate, che le idee sulla “classe studentesca rivoluzionaria” o sul “potere studentesco” erano marginali e destinate a sparire in fretta, visto che, in quasi tutte le principali città, le leadership del movimento che si stavano affermando, senza neanche troppa discrezione, non erano costituite da studenti universitari di primo pelo e novizi della politica, ma in prevalenza (a parte qualche anarchico) da militanti di estrazione marxista (leninista, maoista o trozkista, più qualche luxemburghiano) che si erano già segnalati o nella battaglia interna del Pci e della Fgci (e in parecchi per questo espulsi) o in strutture che nell’ultimo triennio pre-Sessantotto, si erano andate addensando a sinistra del Pci, molto spesso con riferimenti internazionali espliciti, alla Cina o a Cuba in primo luogo, ma sempre e comunque schierati su posizioni ostili al “socialimperialismo” sovietico. Dunque, neanche i più sprovveduti tra i dirigenti del Pci e della Fgci potevano ignorare la forte caratterizzazione che il movimento andava assumendo come soggetto politico complessivo, in chiave conflittuale e concorrenziale nei confronti del Pci sul piano nazionale e in direzione antagonista all’egemonia sovietica sui partiti europei di estrazione stalinista, nonché alla ricerca di riferimenti ideologici e politici nella Cina maoista o nel Vietnam combattente o nella Cuba di Castro e del Che Guevara dei “due, tre, molti Vietnam”, rapidamente divenuto, dopo essere stato ucciso, inerme, dai militari boliviani, idolo incontrastato del movimento. Fu proprio il segretario del Pci, Luigi Longo, a manifestare per primo la inevitabile presa d’atto della reale situazione. Già nella Direzione citata, così si era espresso, andando piuttosto controcorrente:

«Se facciamo nostra solo una posizione critica degli aspetti più stravaganti, non otterremo un gran costrutto. Se guardiamo invece cosa c’è sotto queste spinte, il discorso diventa più concreto…Dobbiamo superare una certa posizione di diffidenza»8.

Dopo gli scontri di Valle Giulia dell’1 marzo, il Pci e la Fgci romana provarono a seguire l’invito di Longo a superare le “diffidenze”, cercando un dialogo con alcuni leader (veri o presunti) ma continuando a non voler capire la direzione oramai intrapresa dal movimento, almeno nelle sue punte più avanzate (Roma, Milano, Torino, Pisa ecc.) sostenendo ad esempio che il vero «nodo da sciogliere è la creazione di nuovi rapporti nel governo degli atenei…in particolare con il riconoscimento del diritto di assemblea» proprio quando la lotta alla riforma Gui (contro la quale, almeno formalmente, era partita fin da novembre la lotta in varie università) era oramai tema superato (la riforma era stata di fatto ritirata) e le tematiche del conflitto erano andate ben oltre, visto che stavamo investendo le questioni della gestione economica e politica del paese, dei rapporti con la politica istituzionale e del conflitto con il governo, nonché praticando il sostegno aperto alla lotta antimperialista mondiale, a partire dal Vietnam, Cuba e America Latina. In quanto poi al “diritto di assemblea” da richiedere alla controparte universitaria, un obiettivo del genere non poteva che apparire (e apparirci) bizzarro nel momento in cui in gran parte d’Italia le facoltà erano letteralmente nelle nostre mani da mane a sera. E pure gli studenti universitari comunisti (della Fgci), che avrebbero dovuto per lo meno contare su una frequentazione più ravvicinata con il movimento, sembravano fermi ad osservare “il dito” delle assemblee invece della “luna” del conflitto globale, oramai imboccato dal movimento, quando nel loro Convegno nazionale di marzo pomposamente affermavano che «valorizzare tutte le forme autonome di organizzazione significa tradurre in atto il nucleo rivoluzionario della nostra lotta democratica per il socialismo», mentre, in modo persino più retoricamente “trombonesco” nello stesso Convegno l’ex-segretario nazionale della Fgci Achille Occhetto giungeva ad attribuire «una funzione prefiguratrice alle assemblee universitarie, intese come momenti di una democrazia nuova…verso un sistema misto di democrazia delegata e democrazia diretta»9 .

Comunque, al di là di questi tentativi piuttosto puerili di blandire il movimento, le divergenze in materia di tattica per il riassorbimento del movimento in alvei più controllabili (che a intese strategiche o alleanze organiche nessuno nella leadership comunista pensava proprio) avevano comunque una loro realtà fattuale, come dimostrò il Comitato centrale del Pci del 26-28 marzo 1968. Per la verità, il tema centrale di quella riunione non era il movimento studentesco, quanto soprattutto «il programma dei comunisti per le elezioni del 19 maggio. E’ l’ora di cambiare – afferma nella relazione introduttiva il compagno Longo – battere la Dc e il centro-sinistra, far avanzare il Partito comunista italiano. Questa è la sola strada per dare al malcontento, alla protesta del mondo giovanile, al dissenso di grandi masse cattoliche e socialiste uno sbocco politico positivo per fare avanzare tutta la situazione e far uscire l’Italia dalla crisi politica, sociale e morale in cui l’hanno gettata la Dc e il centro-sinistra»10 .

Però, malgrado il tema principale del CC fosse appunto il programma del Pci per le imminenti elezioni politiche e, in subordine, una riflessione su quanto stava accadendo in Cecoslovacchia con la “primavera di Praga” e il conflitto con i sovietici, la «protesta del mondo giovanile», come Longo aveva eufemisticamente presentato la rivolta del movimento delle università, venne affrontata da numerosi interventi di rilievo, e con toni differenziati. Natta ad esempio ne valutava positivamente la “carica anticapitalistica”, dimostrando di aver almeno percepito che non più di “potere studentesco” si trattasse, mentre Petruccioli invitava a «agire all’interno di questo movimento seguendone la logica». Di diverso avviso, Bufalini, per nulla entusiasta di “seguire la logica” del movimento e desideroso che fosse piuttosto esso a spostarsi «sul terreno giusto della lotta per le riforme», lanciando un monito all’intero partito affinché avviasse una «lotta su due fronti: contro un atteggiamento conservatore e contro le posizioni di natura estremista»: invito molto più in sintonia, al di là delle “ruffianerie” di circostanza, con lo spirito dominante nel Pci in quella fase, dal vertice alla base; così come la sollecitazione venuta da Amendola che lanciò una sorta di allarme generale di contro al «pericolo di adeguarci soltanto alla spontaneità»11. Nelle conclusioni, comunque, Longo confermò la volontà di apertura verso il movimento, seppure in forma paternalistica, con la condiscendenza del padre paziente verso il figlio un po’ scapestrato e confuso e senza un serio tentativo di analisi di cosa fosse davvero il movimento e su quale prospettiva si muovesse, finendo per negargli di fatto un ruolo di soggetto politico:

« Il movimento matura in una direzione non certo estranea alla nostra lotta. Matura, è vero, ancora con incertezze, contraddizioni e confusioni. Ma è proprio per questi motivi che io concordo con quei compagni che hanno posto l’accento sulla necessità di rimuovere ogni mentalità di routine…Dobbiamo invece incoraggiare un atteggiamento di apertura, di intelligente comprensione del nuovo»12.

Oltre a queste conclusioni apparentemente “aperturiste”, il CC approvò anche un Ordine del giorno sul tema, di cui riporto i brani principali:

«Questa lotta è anche la lotta dei comunisti, fuori e dentro l’Università. Il CC del Pci invita a consolidare ed estendere le conquiste del movimento studentesco. Non solo è stata liquidata la legge Gui, ma si è creata negli Atenei una situazione nuova dalla quale nessuno potrà più prescindere…L’autonomia del movimento e il legame tra gli obiettivi immediati e quelli a lungo termine…(impone) un organico collegamento con la lotta più generale dei lavoratori…La battaglia che oggi si sviluppa nella scuola è un momento della lotta perla trasformazione democratica e socialista dell’Italia»13.

Longo provò nel mese successivo, anche in vista delle elezioni di maggio su cui il Pci puntava molto per un significativo avanzamento e nella competizione con il PSU, sorto dall’unificazione tra il Psi e il Psdi, a dare seguito alle aperture verbali, organizzando un incontro con presunti “esponenti del movimento romano”: ma per non rischiare di vedersi contestato dalla maggioranza della Direzione del partito – che non voleva affatto alcuna alleanza reale con il movimento – e nello stesso tempo ricevere da noi critiche e contestazioni pubbliche da sinistra, si costruì una delegazione di comodo, con giovani del Pci “frequentatori” del movimento e fuoriusciti dalla Fgci come Oreste Scalzone, l’unico ad avere un ruolo effettivo nel movimento, anche se più per la visibilità mediatica acquisita dopo essere stato seriamente ferito alla spina dorsale il 16 marzo durante un assalto fascista all’Università di Roma14 che per un effettivo ruolo di leadership svolto fino al quel momento. Comunque la delegazione e l’incontro, di cui venimmo a sapere solo a posteriori, non produssero nulla di rilievo, salvo l’uso strumentale che ne fece il Pci sull’onda di un invito che Scalzone, seppur precisando di parlare a titolo personale, fece a votare “scheda rossa”, cioè Pci, nelle imminenti elezioni.

In verità, l’apertura più grande, seppur per via indiretta, che il Pci fece verso il movimento, avvenne il 1°maggio quando alla classica manifestazione della Cgil a P. S. Giovanni venne data la parola ad un esponente del movimento, Franco Russo. Ci si arrivò anche attraverso una forte pressione che esercitammo proprio il sottoscritto e Roberto Massari, che avevamo portato in dote al movimento (oltre che, per quel che mi riguarda, la forte mobilitazione in una facoltà tradizionalmente passiva come Ingegneria, di cui ero di fatto il portavoce) pure il lavoro che da mesi svolgevamo con gli edili romani, aiutandoli, anche grazie ad un periodico (Avanguardia edile), nell’autorganizzazione e nella difesa dagli abusi di tanti palazzinari dell’epoca. Cosicché, quando, nel quadro dello sciopero nazionale degli edili contro “le morti bianche” nei cantieri a Roma, vennero convocate tre manifestazioni, riuscimmo a saldare la partecipazione di molti studenti con quella degli edili con un ottimo successo di piazza. E grazie alla sponsorizzazione dei lavoratori legati all’esperienza di Avanguardia edile, Roberto parlò a Porta San Paolo nella manifestazione principale, invitando all’unità più generale operai-studenti e proponendo che tale unità ricevesse una “consacrazione” importante nella imminente manifestazione di S. Giovanni, ottenendo la possibilità per un nostro esponente di parlare dal palco. Sull’onda del successo della mobilitazione unitaria di quella giornata, una delegazione di edili insieme a Roberto Massari si recò alla Camera del Lavoro per perorare la proposta ottenendo una notevole disponibilità, che però sarebbe venuta certamente meno se il Pci si fosse messo di traverso. Ma a favore dell’intervento ufficiale del movimento a S. Giovanni giocò sia l’orientamento di Longo sia, a mio avviso con un peso ancor più rilevante, l’intento di guadagnare significativi consensi elettorali nel vasto bacino di militanza universitaria e pure nei milioni di cittadini/e e salariati/e che nutrivano simpatia per il movimento pur non essendo comunisti. Così, il 1° maggio a Roma, nella piazza italiana più simbolica per il movimento operaio, lavoratori e studenti (arrivammo con un foltissimo corteo, accolto da simpatia e applausi e consenso dai lavoratori già in piazza, malgrado la contestazione che riservammo ad alcuni interventi della Cgil) dettero l’impressione di poter celebrare se non un vero e proprio matrimonio, almeno un avvio di “fidanzamento”.

Ma in realtà non andò affatto così. Il 3 maggio esplodeva il Movimento delle università in Francia assumendo rapidamente caratteristiche più esplosive di quello italiano e intrecciandosi in fretta con un analogo e fortissimo movimento dei lavoratori salariati: in pochi giorni il Maggio francese finì per catalizzare l’attenzione mondiale, mettendo un po’ in ombra il movimento italiano. E qui da noi, malgrado le possibili buone intenzioni di Longo, il Pci, una volta portato a casa un ottimo risultato elettorale il 19 e 20 maggio (al Senato passò dal 23,5% del 1963 ad un sorprendente 30%, mentre alla Camera l’aumento fu più contenuto, dal 25,2% al 27%)15, accantonò la diplomazia e le ipocrisie di circostanza: e la presunta “svolta” verso i giovani, gli studenti e più precisamente verso il movimento del ’68, oramai non più definibile come solo “studentesco”, svanì piuttosto rapidamente, via via che crescevano, proprio sull’onda dei successi del movimento unitario studenti-lavoratori in Francia, le nostre intenzioni di occupare uno spazio politico ben oltre il solo terreno scolastico. Per la verità, nella riunione della Direzione del Pci che si era tenuta il 29 aprile, Longo aveva proposto, sull’onda della riunione tenutasi dieci giorni prima con la fittizia “delegazione dl movimento”, di fare un passo ben più impegnativo «organizzando incontri, in modo solenne, tra operai e studenti», nell’intento di arrivare ad un incontro ufficiale (appunto, solenne) tra il Pci e una vera delegazione del movimento; ma restò completamente isolato, come ricordò parecchi anni dopo Tortorella16, e la sua proposta cadde nel vuoto. Né sorte migliore ebbe l’articolo di Longo pubblicato da Rinascita subito dopo il 1°maggio in cui sottolineava il possibile ruolo del «movimento studentesco nella lotta anticapitalistica» e auspicava un nuovo rapporto del Pci con i giovani, tanto più che da tale rapporto Longo auspicava – immagino con quale entusiasmo della restante leadership del Pci – ne potesse derivare un significativo «ricambio degli organi dirigenti del partito»17. Gli rispose in maniera organica, interpretando quello che credo fosse il parere della maggioranza della Direzione Pci, Giorgio Amendola, sempre mediante un articolo su Rinascita18, riproponendo la tesi più diffusa nel partito – una volta che la politicità e la radicalità del movimento erano divenute palesi anche agli analisti più superficiali – a proposito della «necessità della lotta sui due fronti…contro l’opportunismo socialdemocratico e contro il settarismo, lo schematismo e l’estremismo»; tutte caratteristiche negative che ovviamente Amendola, e la maggioranza del partito che così la pensava, attribuiva tout court al movimento. Nell’articolo, Amendola polemizzava apertamente con Longo, a proposito della sua apertura al movimento come possibile soggetto della lotta anticapitalistica, attaccando appunto la tesi «di una pretesa iniziativa rivoluzionaria che spetterebbe al movimento studentesco, di fronte alla presunta integrazione nel sistema della classe operaia», usando un artificio retorico senza alcun fondamento, visto che, almeno a quelli di noi che furono maggiormente attivi e protagonisti in quel movimento si poteva imputare casomai un eccesso opposto di “operaismo”, un culto esagerato delle possibili funzioni palingenetiche e rivoluzionarie della classe operaia, mentre la tesi della sua “integrazione nel sistema”, almeno nel movimento italiano (o nei gruppi della sinistra extraparlamentare che finirono per sostituirlo dall’anno successivo), non ebbe mai una significativa cittadinanza.

Pochi giorni dopo l’articolo di Amendola, Pier Paolo Pasolini scrisse su L’Espresso, provocando grande clamore, una notevole scia di visibilità mediatica e forti polemiche, una “poesia”. Al momento non compresi perché venisse definita “poesia” quello che in realtà era un maledettamente prosaico scritto, un pamphlet velenoso di quattro cartelle contro il movimento e i suoi protagonisti, condito, con maliziosa ruffianeria, da un elogio accorato del ruolo del Pci, intitolato, come se lui stesso parlasse a nome di quel partito, Il Pci ai giovani19. Oggi mi dico che forse Pasolini cercò di farlo passare per un contributo “artistico”, in modo da evitare di venir giudicato con criteri esclusivamente politici o ideologici: di sicuro ottenne l’effetto di farci imbestialire e di venir molto apprezzato dal “circo mediatico” della sinistra comunista, visto che, a mio parere, esprimeva, seppur con una pesantezza che un politico non avrebbe mai usato, il pensiero medio di tutti quei comunisti restati fedeli alla loro lunga storia togliattian-stalinista. Di tale “poesia” in genere venne sottolineata all’epoca soprattutto la parte in cui Pasolini esprimeva il massimo disprezzo verso di noi e una solidarietà/simpatia di fondo per i “poveri” poliziotti, che però alla fin fine trattava con analoga spocchia. Ne riporto di seguito i passaggi principali:

«Adesso i giornalisti di tutto il mondo vi leccano il culo. Io no, cari. Avete facce di figli di papà. Vi odio come odio i vostri papà. Buona razza non mente. Avete lo stesso occhio cattivo. Siete pavidi, incerti, disperati ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati: prerogative piccolo-borghesi, cari. Quando ieri a Valle Giulia (n.d.s. in realtà erano passati più di cento giorni, ma Pasolini volle far credere di aver scritto sull’onda dell’emotività immediata, mentre lasciò passare tutto il tempo necessario per valutare l’effettiva presa del movimento e la posizione del Pci) avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti. Perché sono figli di poveri, vengono da subtopie20, contadine o urbane che siano. Quanto a me, conosco assai bene il loro modo di essere stati bambini e ragazzi, le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui, a causa della miseria che non dà autorità…E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci, con quella stoffa ruvida, che puzza di rancio e furerie..senza più sorriso, senza più amicizia col mondo, , separati, esclusi, umiliati dalla perdita di qualità di uomini per quella di poliziotti»21.

Lo scritto che, come si vede, di “poetico” non aveva nulla, continuava per altre 150 righe, circa, alternando insulti a noi e compatimento verso i poliziotti, prima di arrivare a quello che, a mio giudizio, era il vero intento del testo. Ma, prima di arrivarci, Pasolini sciorinava un lungo elenco di sciocchezze che dimostravano inconfutabilmente non già la sua pretesa, e presuntuosamente rivendicata, conoscenza della società, di quella popolare nello specifico, ma una concreta e grande ignoranza e superficialità generale, e in particolare su cosa nell’ultimo decennio era cambiato non solo nella società (“sparizione delle lucciole” a parte) ma soprattutto nella scuola e nelle università. Non so se davvero Pasolini fosse così sprovveduto da credere che nel ‘68 all’Università (e magari anche nei licei) ci andassero solo, o prevalentemente, i figli dei ricchi come prima della Seconda Guerra mondiale. Nel caso, gli sarebbe bastato leggere all’epoca un qualche nostro volantino dove davamo le cifre dell’accesso di massa all’università. La mia famiglia, ad esempio, aveva una piccola bottega di alimentari e gli introiti mensili non superavano quello di un operaio qualificato: anzi, nel paese dove ho abitato dai 5 ai 15 anni, e dove allora esistevano le più importanti fabbriche di ceramica d’Italia, mio padre e mia madre portavano a casa mensilmente meno di un buon operaio ceramista. La grande maggioranza dei protagonisti del ’68 non avevano affatto famiglie ricche ma qualificabili con quel generico termine, solitamente spregiativo nella vulgata marxoide, di “piccola borghesia”, con redditi comunque non di molto superiori a quelli medi operai. Probabilmente PPP non sapeva nemmeno che all’epoca un poliziotto di grado medio guadagnava quanto una maestra elementare; e che una parte significativa di essi, almeno gli ultra-quarantenni, che erano la maggioranza in polizia, avevano i figli all’università o nei licei. E, per soprammercato, la netta maggioranza di essi, se avessero letto la sua sciocca “poesia” in cui venivano trattati da minus habens, da “servi”, da “pagliacci”, da “uomini senza dignità a causa della miseria” lo avrebbero spernacchiato alla grande e magari, avendone l’occasione, bastonato più di quanto tentarono (senza riuscirci) di fare a noi a Valle Giulia. Peraltro, Pasolini non avrebbe mai osato scrivere otto anni prima, rivolto a chi nel 1960, durante il governo Tambroni sostenuto dai fascisti, si batté contro la polizia, le stupidaggini insultanti scritte contro di noi.

Anche se all’epoca qualcuno nel movimento avanzò l’ipotesi che Pasolini avesse colto quell’occasione per insultarci come sorta di ritorsione per la contestazione che Alberto Moravia e Dacia Maraini, suoi carissimi amici e “protettori”, avevano ricevuto all’Università di Roma, io resto convinto che il senso vero delle sue accuse si ritrovasse nell’ultima parte del pessimo sproloquio, laddove Pasolini alzava una lode alla funzione salvifica del Pci, cosa peraltro conseguente a quel titolo in cui sembrava voler “dare la linea” al gruppo dirigente del Partito comunista che probabilmente giudicava non aver trattato il movimento con la durezza che egli riteneva si meritasse. Vediamola dunque questa parte, allora troppo trascurata, nei suoi passaggi principali.

«Voi non riuscirete mai a fare dei Maestri. I Maestri si fanno occupando le fabbriche non le università, voi siete una nuova specie idealista di qualunquisti, come i vostri padri. Gli Americani coi loro sciocchi fiori si stanno inventando un nuovo linguaggio rivoluzionario! Ma voi non potete farlo perché in Europa ce n’è già uno: potreste ignorarlo? Sì, voi volete ignorarlo, andando, con moralismo provinciale, “più a sinistra”, abbandonando il linguaggio rivoluzionario del povero, vecchio, togliattiano Partito Comunista…Inebriati dalla vittoria contro i giovanotti della polizia costretti dalla povertà ad essere servi…mettete da parte l’unico strumento davvero pericoloso per combattere contro i vostri padri, ossia il comunismo. Fare del puritanesimo è un modo per impedirsi la noia di un’azione rivoluzionaria vera…Ma andate piuttosto ad occupare gli usci del Comitato Centrale, andate ad accamparvi alle Botteghe Oscure. Se volete il potere, almeno impadronitevi del potere di un Partito che, anche se malconcio, è tuttavia all’opposizione»22 .

Insomma, una vera e propria ruffianeria (quella che negli ambienti sottoproletari tanto amati da Pasolini si chiamerebbe volgarmente “marchetta”) nei confronti di quel Pci che proteggeva e portava agli altari lui e una congerie di intellettuali “di sinistra”, che ricavavano significativi vantaggi nel loro ruolo di intellettuali di Palazzo (dell’Opposizione), garantendo in compenso al Pci forti entrature e consensi anche nella “buona società” non comunista; e molti di loro ricevendo porzioni non irrilevanti di potere nei luoghi che contavano per l’intellettualità dell’epoca (e anche per quella di oggi), dall’Università alle case editrici, dalla stampa alla TV. Un Pci, peraltro, niente affatto “malconcio”, come lo giudicava Pasolini, ma anzi fresco reduce da un notevole successo elettorale e da una crescita di posizione e di centralità nella politica italiana. Al punto da permettersi di fare un ultimo tentativo di attrazione verso almeno una parte del movimento, usando, dal 29 novembre al 1 dicembre, il Convegno nazionale di quadri della Fgci sul tema del rapporto con gli studenti e i giovani. Malgrado lo strumento usato, la Federazione Giovanile Comunista, potesse contare nei confronti delle leadership del movimento (in particolare a Roma) su una credibilità pari a zero – se si tiene conto che tanti dei protagonisti del movimento erano stati espulsi dall’organizzazione proprio a causa delle posizioni prese alla nascita del movimento stesso o poco prima – il segretario Petruccioli cercò ugualmente un’inverosimile captatio benevolontiae verso il movimento, proponendo addirittura di sostituire la Fgci con «una nuova organizzazione modellata sui movimenti»23 mentre Occhetto, nella sua introduzione, andò anche oltre, fantasticando su «nuovi organismi operai di tipo consiliare…un coordinamento tra gli strumenti di democrazia nelle fabbriche, la creazione di un permanente spazio democratico nella scuola, l’utilizzazione contestativa dei centri di potere già nelle mani delle forze popolari, un nuovo rapporto tra forme di democrazia diretta e assemblee elettive…poiché la rivoluzione è nelle cose»24.

Naturalmente non se ne fece niente: e di lì a poco anche questa demagogia a buon mercato si placò perché con il nuovo anno la gran parte delle leadership del movimento si indirizzarono verso strade già ampiamente battute, scegliendo la più facile e ben nota, ma impoverente, via partitica, passando dalle metodologie neo-anarchiche, libertarie e “assembleariste” dei primi mesi di movimento ad una sorta di neo-leninismo minimale, attraverso la progressiva costituzione (che per la verità esordì già nel settembre ’68 con l’esperienza sbalorditivamente grottesca e imprevedibile dell’Unione dei Comunisti italiani (marxisti-leninisti – Servire il popolo25) di una vasta gamma di partitini, più o meno consistenti, in gara tra loro e con il Pci per il titolo di vera e genuina organizzazione comunista. Con l’effetto parallelo di contribuire non poco a risolvere gran parte delle contraddizioni interne al Pci, suscitate dal dover affrontare e cercare di controllare un movimento originale, non maneggiabile con gli strumenti classici del partitismo comunista: contraddizioni eliminate, o ridotte ai minimi termini, dall’emergere, al posto del movimento, di una gruppettistica partitica di sinistra radicale e antagonista – pur scaturita dal movimento stesso, perché ai sostenitori della tesi del movimento “violentato” dai gruppi va sempre ricordato che oltre il 90% delle leadership dei partitini nascenti coincideva quasi ovunque con i protagonisti del movimento stesso26 – nei confronti della quale il Pci poteva usare le sue ben note metodologie storiche (seppur in una forma aggiornata di terzinternazionalismo soft”), già collaudate nei riguardi di qualsiasi precedente forma partitica avente l’ambizione di occupare stabilmente spazi alla sua sinistra.

Incontro mancato o incontro impossibile?

Sia nel titolo sia nelle conclusioni del suo articolo citato qualche pagina fa, Alexander Hobel si domandava se quello tra Pci e movimento del Sessantotto fosse stato un incontro mancato, rispondendosi sostanzialmente in modo affermativo. Al contrario, io penso che si sia trattato di un incontro impossibile. E non tanto per gli orientamenti alla fine prevalenti nel movimento e per le scelte largamente maggioritarie di “partitizzazione” dello stesso nel 1969, cosa che certo un ruolo lo ebbe. Ma fu un ruolo, come già detto, addirittura salvifico per le contraddizioni interne al Pci che ricevette, dalla mutazione in atto nel movimento e dalla sua trasformazione partitico-politicista, un regalo inaspettato, che gli consentì di riprendere quella sostanziale linearità di comportamento, teorico e pratico, che lo aveva caratterizzato, prima del ’68, rispetto a tutto quel che si muoveva alla sua sinistra. Per paradossale che potè apparire la mutazione di pelle piuttosto rapida del movimento del ’68 (e così allora apparve anche a me, pure se, dopo un quinquennio post-68 di “resistenza” movimentista e “anti-gruppettara”, ebbi anch’io una sbandata partitista, seppur durata solo un anno, fondando Avanguardia Comunista e divenendone, per sovrammercato, segretario nazionale) verso una disseminazione partitista, essa presentava, agli occhi dei dirigenti ma anche di gran parte dei militanti del Pci, un panorama, rispetto al movimento precedente, ben diversamente noto e molto più maneggiabile, senza incorrere in divisioni o contraddizioni particolari. Panorama inizialmente sorprendente, anche per osservatori estranei al conflitto, sordo o palese, tra Pci e movimento, perché all’epoca non era facilmente prevedibile (io stesso una spiegazione accettabilmente articolata e approfondita, almeno credo, me la sono data solo a posteriori e l’ho messa ampiamente su carta27 soltanto un paio di decenni dopo) un simile e rapido passaggio da un movimento piuttosto sofisticato culturalmente e ideologicamente – e significativo politicamente al punto da mettere in difficoltà storiche forme consolidate di partiti e sindacati e altri strumenti istituzionali di controllo autoritario e incanalamento del consenso – ad una filiazione di decine di gruppi, di cui quattro o cinque con numeri non disprezzabili, che andarono ripercorrendo, a volte con modalità parodistiche come la già citata Unione dei Comunisti, vecchi cammini già largamente battuti. A partire dall’autunno ’68, con una forte accelerazione l’anno successivo – anche in concomitanza con la discesa in campo di un forte, promettente e combattivo movimento operaio che tanto aveva appreso dal ’68, e che offrì un fertile terreno d’azione per la galassia neo-partitista – la creazione, la conservazione e la crescita del gruppo-partito divennero l’obiettivo primario, il fine manifesto del lavoro politico di molte migliaia di militanti. Il gruppo-partito non era considerato, solo o soprattutto, un efficace strumento dei movimenti di lotta, ma una sorta di “azienda”, la cui crescita avrebbe dovuto garantire di per sé i mutamenti di forza nella società; e comunque, almeno per l’intanto, una qualche promozione sociale, una collocazione di visibilità gratificante e di prestigio per i suoi esponenti.

Avvenne che si costituirono decine di apparati sul modello di Stati alternativi in miniatura con i mini-Ministeri (interni, esteri, lavoro, cultura, informazione e propaganda, donne, giovani ecc.), il mini-esercito (il servizio d’ordine), il mini-Parlamento (il Comitato centrale o la Direzione “allargata”), il mini-governo (la Segreteria) e a volte anche il mini-presidente del Consiglio (il Segretario nazionale). E come se non fosse bastata la capriola teorica e politica che dal movimento aveva bruscamente portato in pochissimo tempo ai gruppi-partito, a contrastare ancor più nettamente la linea di tendenza indicata dai movimenti politici di massa, ci si mise l’enorme, e assai difficilmente comprensibile, frammentazione pratica dei gruppi stessi. Non che non ci fossero motivi di dissenso, prima tra le varie correnti del movimento del ’68 e poi tra i partitini. Ma la sistematica e puntigliosa contesa politica in verità non si basava per lo più su grandi temi, su questioni epocali: che so, concezioni del socialismo, atteggiamenti di rifiuto o di accettazione critica del “socialismo reale”, strade da seguire per un processo rivoluzionario in Occidente, costruzione del blocco sociale anticapitalistico, rapporto politica-economia e partito-sindacato, nesso democrazia-socialismo e libertà democratiche da garantire comunque, e faccende ponderose del genere. E neanche, in realtà, c’erano divergenze incolmabili sui programmi di lotta a breve e media scadenza o sui rapporti tattici con i partiti riformisti di opposizione: pure se magari esistevano gradazioni diverse di ostilità nei confronti di Pci e Cgil, ma molto spesso erano trasversali, con differenze tra un gruppo e l’altro ma anche all’interno delle stesso partitino, o addirittura tra una città o provincia e l’altra dello stesso gruppo. Insomma, niente di così radicalmente conflittuale o incomponibile da impedire davvero ai gruppi maggiori e ai più piccoli di stare insieme, almeno come coalizioni stabili o con Patti di unità d’azione se non proprio in un’unica organizzazione, che peraltro avrebbe potuto avere il non trascurabile vantaggio di presentarsi come più o meno legittima erede del ’68 (unità che si realizzò solo in extremis, per pochi mesi e sul terreno peggiore, quello elettorale, quando i tre gruppi principali – Avanguardia operaia, Lotta Continua e il Pdup – effettuarono un breve “fidanzamento” nelle elezioni del 1976, presentando un lista denominata Democrazia Proletaria, che non superò l’1,5%).

Insomma, nella logica della crescita del proprio gruppo come obiettivo principale, prevalse la legge della concorrenza: legge che, come è noto, fa temere e combattere proprio quel “produttore” che vende una “merce” molto simile alla propria: pur non volendo io ignorare possibili, effettivi contrasti teorico-politici che però, se non fosse stato per motivi di affermazione della propria“potenza”, avrebbero potuto convivere anche in correnti diversi della stessa organizzazione. Resto ancor oggi convinto che la lotta ideologica e politica “intestina” fu enfatizzata oltre il normale perché – in assenza di stabili e trasparenti rappresentanze sociali significative organizzate in questo o quel gruppo, incaricato di esprimerne quindi esigenze e interessi concreti e materiali e non di cercare adesioni in base ad una “falsa coscienza” ideologica – era l’unica caratteristica che giustificasse la disseminazione dei gruppi oltre il lecito, al punto che molti militanti scelsero il gruppo-partito a cui appartenere, più che per l’impostazione programmatica, per l’imprinting culturale, per l’immagine, per lo “stile” del gruppo dirigente, per l’appeal delle leadership ecc. Comunque, è indubbio che, di fronte a questa sorta di imitazione (o scimmiottamento) delle strutture e delle relazioni del Pci e a questa gara per dimostrare di essere più comunisti dei comunisti, il Pci riuscì ad avere anni di relativa tranquillità e di facilità di comportamenti nei confronti di chi si voleva collocare alla sua sinistra, tranquillità e omogeneità interna che invece aveva abbastanza perso durante tutto il ’68. Al punto che dopo anni di convivenza senza troppi problemi con la sinistra extraparlamentare partitica, nel 1976 e nelle elezioni già citate, il Pci potè addirittura utilizzare tutto il movimentismo “gruppettaro” per farsi tirare la volata dai tre gruppi principali (Avanguardia operaia, Lotta Continua e Pdup) che si presentarono sposando una linea “frontista” esplicitata da Lotta Continua in un suo infaustamente celebre slogan propagandistico («prenderemo il 3% ma è quanto basterà per far vincere il governo delle sinistre»). Mentre in realtà, dopo 8 anni di attività politica e a conferma della vecchia massima di Nenni (“piazze piene e urne vuote”), la lista di Democrazia Proletaria si fermò a metà rispetto alle previsioni (con l’1,5%) mentre le elezioni si risolsero in un vero e proprio trionfo del Pci, passato dal 27% del 1972 al 34,4% del 1976, con un balzo in avanti senza precedenti nella sua storia. Il quale Pci, però, nell’anno seguente, il terribile ‘77, avrebbe cambiato radicalmente atteggiamenti, come vedremo in uno dei prossimi capitoli, nei confronti del “popolo” alla sua sinistra, proprio perché la riapparizione di un vero movimento politico di massa – certo, non delle dimensioni di quello del ’68, ma anche più radicale, antagonista e caratterizzato da una forte ostilità nei confronti del Partito comunista e della Cgil – lo rimise in grande difficoltà di fronte alle proprie contraddizioni storiche, al punto da farlo passare ad una vera e propria aggressione politica contro il movimento, con attacchi diretti e inviti ripetuti alla repressione rivolti in prima persona agli apparati statali. Ma la domanda iniziale, quella da cui sono partito in questo capitolo, riguardava in realtà la possibilità di dialogo tra il Pci e la prima forma assunta dalla rivolta del ’68, quella genuinamente movimentista. Ebbene, confermo la mia convinzione profonda – e quella odierna é la stessa di allora – che si trattò di un’intesa impossibile e di un’alleanza irrealizzabile in quanto avrebbe dovuto essere praticata tra soggetti politici incompatibili. E per svariate e profonde ragioni.

1) Al di là delle finzioni e delle ipocrisie della prima ora (quelle che provocarono le strumentali critiche ad un movimento disegnato come portabandiera del “potere studentesco” e degli studenti come “classe rivoluzionaria”), il Pci conosceva bene la grande maggioranza delle leadership di movimento nelle varie città, ne sapeva le provenienze ideologico-politiche (in buona parte trotzkiste o stalin-maoiste o anarco-libertarie o guevariste sulla linea del “creare due, tre, molti Vietnam”) e i percorsi organizzativi, anche perché una buona parte di quei militanti erano stati espulsi nell’ultimo biennio dal Pci e dalla Fgci. E soprattutto sapeva con ragionevole certezza che, al di là di altre differenze ideologiche o politiche, una posizione accomunava tutti i leader del nascente movimento che avessero avuto precedenti esperienze politiche: la totale avversione al “socialimperialismo” sovietico, la ripulsa verso l’Urss, seppur a volte partendo da posizioni ideologiche ben diverse (i neostalinisti perché l’Urss aveva rinnegato Stalin, i trotzkisti perché ne vedevano al contrario la continuità, i maoisti perché erano dalla parte della Cina nella sua contrapposizione all’Unione Sovietica, gli anarchici perché ci ritrovavano sempre gli eredi della feroce repressione di Kronstadt ecc.). Ed essendo il movimento italiano non certo isolato ma immerso in un contesto rivoluzionario o rivoltoso a carattere mondiale, con tante connessioni internazionali, era semplicemente impensabile – una volta acclarato lo spessore politico generale, a carattere nazionale e internazionale, del movimento del Sessantotto – stabilire un’alleanza non strumentale e duratura (che chiarissimamente non poteva venir circoscritta al conflitto scolastico o alla ripulsa della legge Gui o al “diritto di assemblea” nelle scuole) con un forza politica sulla cresta dell’onda, di massima visibilità urbi et orbi e così caratterizzata da posizioni apertamente filo-cinesi e anti-sovietiche.

Non va dimenticato che la dichiarata de-stalinizzazione fu un artificio di facciata e un inevitabile adeguamento ai tempi sia in Unione Sovietica sia in Italia e nel resto d’Europa per quasi tutti i partiti comunisti. Ma il legame con l’Urss de-stalinizzata restava forte, anche dopo l’invasione della Cecoslovacchia, che seguiva a 12 anni di distanza quella dell’Ungheria, abbondantemente descritta in uno dei capitoli precedenti: ed era anche un rapporto di dipendenza, seppur meno iugulatorio di quello dell’epoca di Stalin, dovuto non solo o soprattutto ai finanziamenti che il Pci ancora riceveva da Mosca, ma ancor più alla legittimazione internazionale che i comunisti italiani avevano ottenuto, dalla fine della guerra in poi, come rappresentanti italiani dell’Unione Sovietica e dunque come garanti dell’attuazione anche in Italia del Patto di Jalta, ossia della spartizione tra Usa e Urss delle reciproche zone di influenza e dominio. Il Pci non si è mai potuto permettere una rottura con l’Urss fino a quando questa è esistita: e non a caso sparita essa, è sparito anche il Pci. Dunque, nessuna alleanza, né nel ’68, né prima o dopo, il Pci ha mai potuto stabilire con forze politiche dichiaratamente anti-sovietiche: anzi, dopo 13 anni di stretto lavoro in comune, durante la Resistenza e successivamente, il Pci, come descritto nel capitolo sugli eventi ungheresi, ruppe l’alleanza con il Psi quando quest’ultimo, nel 1956, si affrancò dall’Urss, criticandone aspramente l’invasione militare dell’Ungheria.

2) Ne fu vistosa riprova anche l’espulsione dal Pci (più precisamente, la radiazione28) del gruppo del Manifesto avvenuta l’anno dopo, il 27 novembre 1969, che colpì Lucio Magri, Rossana Rossanda, Luigi Pintor e Aldo Natoli. Se si osservano ancor oggi le motivazioni ufficiali, e anche gli argomenti sostenuti nel Comitato centrale del 15 ottobre, decisivo per la radiazione, e in particolare la requisitoria lunghissima e assai elaborata29 che Pietro Ingrao (sì, proprio quel Pietro Ingrao, protagonista nel 1956 delle falsificazioni della stampa comunista sulla insurrezione ungherese – che ho ampiamente documentato nel capitolo sul tema – e che poi paradossalmente sarebbe divenuto un nume tutelare del quotidiano Il Manifesto e dei suoi leader) svolse, dopo la relazione di Natta, come principale accusatore del gruppo, se ne avverte facilmente la clamorosa ipocrisia formale e l’occultamento neo-stalinista delle vere ragioni della rottura. Con la parziale eccezione di Lucio Magri, che proveniva dalla gioventù studentesca democristiana bergamasca ed entrò nel Pci nel 1956, gli altri tre “radiati” avevano fatto parte, integrale e convinta, di tutta la storia del Pci post-bellico, erano stati stalinisti consapevoli; nel 1956 Natoli e Pintor (di Rossanda non so) avevano approvato la giustezza dell’intervento militare sovietico in Ungheria; e anche dopo la presunta de-stalinizzazione si erano accuratamente evitati ripensamenti o autocritiche sul loro passato stalinista, oltre a rimanere, dichiaratamente e senza dubbi, togliattiani. Compresa Rossanda, la quale, nominata da Togliatti nel 1962 responsabile della politica culturale del Pci, ancora nel 2018 sosteneva in un articolo per il 50° anniversario dell’invasione della Cecoslovacchia30 che Togliatti nel 1964 voleva sancire l’indipendenza del Pci da Mosca grazie al cosiddetto “memoriale di Jalta” che criticava la politica sovietica (che poi Longo fece pubblicare); ma che la morte improvvisa in quell’anno gli impedì di portare a termine il distacco. Di fronte ad un gruppo del genere, sempre ligio all’ortodossia stalin-togliattiana fino al 1968, leggendo la requisitoria di Ingrao ancora oggi si rimane sbalorditi nel osservare fino a che punto, anche dodici anni dopo le denunce del XX Congresso Pcus e il crollo del mito di Stalin e quattro anni dopo la morte di Togliatti, la famosa “doppiezza” togliattiana fosse operante persino tra quelle menti ritenute, a torto o a ragione, più aperte al nuovo.

Un terzo dell’atto di accusa era dedicato ad una tesi del Manifesto che identificava«gli organismi nuovi che stavano sorgendo al livello della produzione, nelle fabbriche, come organismi politici consiliari, come soviet». Con la più grande serietà, Ingrao spiegò in quel processo, mascherato da Comitato centrale, che era intollerabile, e incompatibile con la vita nel Pci, che si pensasse di sostituire le strutture politiche e istituzionali (il Parlamento, i Consigli regionali, provinciali e comunali) con i “soviet” dei lavoratori. Il secondo capo d’accusa fu la piena condivisione, da parte del gruppo del Manifesto, delle ragioni e delle idee dei movimenti studenteschi e politici del ’68-‘69, da quello italiano a quello francese, e l’esaltazione del metodo assembleare in luogo di quelli “classici” invalsi nei partiti della Terza internazionale, con le loro gerarchie e regole stringenti. Ci si aggiungeva poi l’accusa, persino ovvia per degli stalin-togliattiani mai davvero “pentiti”, di frazionismo, avendo deciso di pubblicare la rivista senza aver chiesto il permesso al partito, anzi comportandosi come se dell’opinione del partito il gruppo se ne impipasse bellamente. L’aspetto più sconcertante della filippica, lunghissima e ultra-enfatica, è che non vi compariva nemmeno una volta la parola Unione Sovietica. Eppure la vera pietra dello scandalo non era né il consiliarismo “soviettista”, né il sostegno ai movimenti del Sessantotto e neanche il “frazionismo”; bensì quanto Lucio Magri aveva scritto nell’editoriale del secondo numero della rivista, sotto il titolo Praga è sola31, contenente un attacco frontale all’Unione Sovietica, allo stalinismo perdurante e alla funzione regressiva nel mondo dell’Urss, di contro invece ad un elogio, diffuso un po’ in tutta la rivista, della Rivoluzione culturale cinese e della politica maoista, schierandosi di fatto con esse nel momento di aperto e massimo conflitto mondiale con il Pcus kruscioviano.

Insomma, questo è stato sempre – nel ’68 nei confronti nel movimento, nel ’69 nei riguardi del gruppo del Manifesto, e più avanti rispetto ad ogni movimento o forza politica o sociale antisovietica – il limite invalicabile per il Pci, che tale rimase dal giorno della nascita fino alla sparizione dell’Urss: l’impossibilità di scindere i propri destini da quelli sovietici, troppo intrecciata era stata la dipendenza dall’Urss per mezzo secolo da poter pensare ad una rottura effettiva e irrimediabile. Un passo del genere, anche negli anni’60 e ’70 (e persino negli Ottanta; anche l’eurocomunismo berlingueriano era impraticabile e pura retorica, un tentativo ultra-tardivo e raffazzonato di rifarsi una “verginità” impossibile), avrebbe provocato non solo una sicura scissione ed un appoggio, politico e finanziario, dell’Urss ai filo-sovietici ma avrebbe tolto, come dirò nelle prossime righe, la principale legittimazione del ruolo del Pci in Italia e in Europa. Cosa sarebbe rimasto al Pci in caso di una vera rottura con l’Urss? Il suo “peccato originale” fin dalla fondazione nel 1921, su cui ho abbondantemente scritto nel primo saggio del libro, fu certo in primo luogo un catastrofico errore di settarismo, estremismo e incomprensione della realtà sociale davanti al fascismo montante; ma fu accompagnato da quello, altrettanto grave e irrimediabile, di consegnarsi fin dalla nascita nelle mani della direzione sovietica e in particolare di quella staliniana dal 1926 in poi. Come avrebbe potuto il Pci, dopo mezzo secolo di assoluta dipendenza e di lunga sudditanza, spiegare le ragioni di una rottura verticale con l’Urss? Forse imputando a Krusciov e ai suoi quello che, insieme a ben maggiori nefandezze, era stato concesso e sottoscritto durante la dittatura staliniana? E quale collocazione politica disponibile sarebbe rimasta per il Pci, in Italia e in Europa? Non certo quella di chi, dopo un “pentimento” ultra-tardivo, avesse cercato un abbraccio postumo con la socialdemocrazia, visto oltretutto che tale posizione in Italia era ben presidiata dai socialisti, che avrebbero potuto facilmente dimostrare di aver avuto sempre ragione nei confronti dei comunisti, e da ben mezzo secolo.

3) In più, resto convinto che la ragione principale del maggior successo del Pci, rispetto al Psi o alla socialdemocrazia in generale, nel dopoguerra italiano non fu dovuto solo alla sua maggiore abilità nell’interpretare e rappresentare le esigenze e le speranze delle classi e dei ceti popolari italiani (abilità che indiscutibilmente ci fu) ma anche, se non soprattutto, al fatto di essere non solo i rappresentanti ufficiali in Italia dell’Urss ma anche di esserne i garanti del rispetto in Italia del Patto di Jalta, della spartizione dell’egemonia e del controllo dell’Europa tra Stati Uniti e Urss nei due grandi blocchi di nazioni, l’Ovest agli Usa, l’Est all’Urss. Trovandosi l’Italia nel campo assegnato al dominio statunitense, quel compromesso storico che Berlinguer propose pubblicamente, e con gran chiasso mediatico al seguito, tra il 1973 e il 1979, era in realtà operante in Italia dalla fine della guerra. La Dc garantiva gli Stati Uniti, il Pci garantiva l’Urss, affinché in Italia, seppur restando essa con la Nato e il Patto Atlantico nell’area controllata e egemonizzata dagli Stati Uniti, l’Urss potesse avere sempre un’arma potente a disposizione nel caso la situazione geopolitica in Europa, e in particolare nell’area mediterranea, avesse avuto sviluppi imprevedibili e drammatici. Di questo la DC fu sempre consapevole, al punto da trattare il Pci sempre come una sorta di governo-ombra, con cui evitare nei limiti del possibile uno scontro frontale: atteggiamento ricambiato anche dal Pci che comunque poteva godere anche della gestione in prima persona di regioni, province e comuni importanti in cui praticare una politica socialdemocratica, sul modello del Nord Europa, di indubbia efficacia e presa su un popolo comunista che, mentre sembrava, idealmente, credere davvero ad una prospettiva di governo socialista in Italia sulla scia dell’Urss, molto più prosaicamente aveva pian piano preso ad apprezzare nei fatti una più realistica – e a portata di mano in quanto concretamente operante nel quotidiano – gestione socialdemocratica dell’economia, dei servizi sociali e delle strutture pubbliche in una porzione vasta e significativa dell’Italia. Poteva mettere in discussione il Pci tutto questo per allearsi con un movimento che chiedeva la guerra frontale alla Dc e che contestava da sinistra, anche aspramente, la quotidiana gestione sociale e politica del Pci su tanti territori di fatto da esso dominati, controllati e gestiti? Anche su questo il “peccato originale “ del Pci ebbe notevole influenza. A parti invertite, il gruppo dirigente del Partito comunista temeva la potenziale ripetizione, in termini certo meno drammatici e traumatici, del suo estremismo “bordighian-gramsciano” alla nascita, del suo rifiuto originario di alleanze con aree sociali e politiche moderate ma molto influenti nella società, la possibilità che uno stretto rapporto con un movimento così radicale come quello del ’68 (e figuriamoci con quello del ’77) potesse rovinare tutti i rapporti con i “moderati” e con il mondo cattolico faticosamente costruiti in decenni.

4) Questi motivi sarebbero già bastati per rendere impossibile l’incontro (o meglio, e detto più esplicitamente, l’alleanza) con il movimento del Sessantotto, da molti auspicato con assai poco realismo, o con ipocrita retorica, come accadde per quegli esponenti “dialoganti” del Pci e Fgci prima citati. Ma ci fu anche dell’altro, e per nulla irrilevante. La posizione del movimento, largamente diffusa all’interno e con una crescente influenza sulla società tutta, a proposito delle libertà e diritti civili, dei costumi e i modi e stili di vita, delle relazioni inter-personali era inaccettabile non solo dalla parte più “bacchettona” della dirigenza Pci, ma di una porzione molto significativa del suo “corpaccione” militante e simpatizzante. La rivoluzione sessuale auspicata, la massima apertura alle scelte sessuali di ognuno/a e lo “sdoganamento” dell’omosessualità (il femminismo era ancora in nuce, ma lo si sentiva arrivare, a partire dagli Usa), la critica, fino al disprezzo, degli stretti vincoli matrimoniali e della famiglia tradizionale, la contestazione delle regole di vita cattoliche e delle stesse gerarchie vaticane, risultavano tutti materiali assolutamente indigesti per un partito che, fin dall’inserimento togliattiano dei Patti Lateranensi nella Costituzione, aveva fatto della ricerca dell’intesa con il mondo cattolico (e quindi con le tradizionali modalità di vita dominanti) la bussola del proprio agire nel sociale, nel politico e nel culturale. In tal senso, la “beghineria” comunista non fu negli anni Cinquanta e Sessanta del XX secolo molto inferiore a quella cattolica (e Guareschi, ad esempio, nella sua saga letteraria, poi grandemente amplificata dal cinema e dai memorabili Gino Cervi e Fernandel, nei panni di Peppone e Don Camillo, ne aveva offerto una descrizione assai realistica): basti ricordare i salti mortali che dovette fare lo stesso Togliatti per occultare, anche all’interno di un partito che pure dominava e controllava in modo ferreo, il suo stretto legame extraconiugale con Nilde Jotti.

5) Infine, ma non in ordine di importanza, c’era poi il modello gerarchico di partito e la concezione delle “alleanze”, assolutamente dominanti in tutta la storia del Pci. Fin dalla iper-lodata e rivendicata teoria gramsciana dell’egemonia, il Pci, persino nei momenti in cui il proprio peso politico e sociale fu inesistente o irrilevante, aveva sempre interpretato l’egemonia come un processo strumentale di dominio sui possibili alleati o su settori sociali non direttamente da esso controllati o guidati. Visti tutti come “compagni di strada” di cui comunque sempre diffidare, da utilizzare al meglio per brevi periodi e limitati percorsi e al peggio come “utili idioti” di cui sfruttare la disponibilità e l’ingenuità politica. Tranne il periodo un po’ più che decennale di alleanza stretta con il Psi, laddove comunque quest’ultimo recitava la parte del fratello minore succube del primogenito che aveva dalla sua il gran Padre dei Popoli, il Pci non ha mai mantenuto alleanze significative e durature con nessuna forza politica o sociale, visto che anche il rapporto con la Cgil fu sempre visto come una relazione tra chi guida e chi è deve essere guidato. Poteva mai il Pci stabilire una vera alleanza con un movimento delle cui leadership diffidava profondamente, sia per motivi ideologici e politici ma anche per l’assenza di relazioni umane feconde con leader e militanti, in gran parte espulsi in precedenza dal partito o dalla Fgci, politicamente, ideologicamente e culturalmente ben ferrati e anche, diciamolo, ben scaltriti, oltre che dalle precedenti battaglie interne al partito, soprattutto dalla assai formativa esperienza di movimento e che certo non si sarebbero fatti prendere per il naso o trattati da “utili idioti” dai Longo o Napolitano, dagli Amendola o Berlinguer? E che per giunta mai e poi mai avrebbero accettato i meccanismi decisionali, le modalità gerarchiche e i rituali oramai obsoleti di un partito incapace di rinnovarsi e riciclarsi nei movimenti e per loro tramite, e che per giunta aveva un sacro terrore dei meccanismi assembleari e della democrazia decisionale dispiegata?

Note

1 Piero Bernocchi, Per una critica del ’68, Massari Editore, Bolsena, 1998

2 Relazione di Claudio Petruccioli per l’Assise nazionale dei giovani comunisti, in I giovani liberi nella scuola, nel lavoro, nella vita, protagonisti della politica costruiscono una nuova società, Stab. Grafico Editoriale Spada, Roma, 1967

3 G.F. Borghini, Ai membri della Commissione giovanile della Direzione nazionale del Pci, in Fondazione Gramsci, Archivio del Partito comunista italiano, 1967, mf.544

4 Alexander Hobel, Pci e movimento studentesco (1967-1968): un incontro mancato? www.istitutostoricoresistenza.it Hobel è dottore di ricerca in Storia, collabora con la Fondazione Gramsci e l’Università di Napoli Federico II, si occupa in particolare di Storia del movimento operaio e comunista

5 Giancarlo Pajetta, I giovani non sono “una difficoltà” ma sono un problema, Rinascita n.10, 10 marzo 1967

6 Riccardo Terzi, Discutere con i giovani, Rinascita n.11, 17 marzo 1967

7 A.Hobel, op.cit.

8 Direzione Pci del 23 febbraio 1968, in Fondazione Gramsci, Archivio Partito comunista, mf 20

9 Atti del Convegno nazionale degli studenti universitari comunisti, Firenze, 17-18-19 marzo 1968, suppl. a Nuova Generazione, 6 luglio 1968, pp.63-72.

10 l’Unità, 27 marzo 1968)

11 Documenti politici dall’XI al XII Congresso del Pci, Roma, 1969, pp.421-425

12 ibidem

13 Ordine del giorno del CC del Pci, l’Unità, 30 marzo 1968

14 Il 16 marzo, Scalzone venne colpito da un banco lanciato (dall’alto) dai fascisti asserragliati nella Facoltà di Legge, dopo un tentativo fallito, guidati da Almirante e Caradonna, di assaltare l’occupazione di Lettere.

15 Il successo del Pci fu reso ancor più significativo dal pessimo risultato della “concorrenza” di sinistra, visto che Psi e Psdi, unitisi nel ottobre del 1966 nel Partito Socialista Unificato, si fermarono intorno al 15%, mentre la somma dei voti dei due partiti separati nelle precedenti elezioni era andato, seppur di poco, oltre il 20%.

16 A. Tortorella, Tra rinnovamento e continuità, in Luigi Longo. La politica e l’azione, AA.VV., Editori Riuniti, Roma, 1992, pp.268-271.

17 L. Longo, Il movimento studentesco nella lotta anticapitalistica, Rinascita, 3 maggio 1968.

18 G. Amendola, Necessità della lotta sui due fronti, Rinascita, 7 giugno 1968.

19 P.P. Pasolini, Il Pci ai giovani, L’Espresso, 16 giugno 1968.

20 L’uso di questo termine, sofisticato e di provenienza inglese, assai esclusivo per l’Italia, conferma che Pasolini non pensava ai “proletari”, in divisa o meno, mentre scriveva. Ricordo che le subtopie sono, in inglese, zone di estrema periferia; ma il termine richiama anche il particolare degrado di ipotesi “utopiche” di architetti “progressisti” i cui progetti venivano travolti dalla realtà delle estreme periferie (tipo Corviale a Roma o le Vele a Napoli, diremmo oggi). Comunque subtopia allora (oggi non so) risultava ignoto persino alla larga maggioranza di noi studenti universitari

21 P.P. Pasolini, op. cit.

22 Ibidem

23 C. Petruccioli, Convegno nazionale dei quadri della Fgci, supplemento a Nuova Generazione n.18, 1968.

24 A. Occhetto, Convegno nazionale quadri Fgci, op.cit.

25 P. Bernocchi, Per una critica del ’68, op.cit.

26 Ibidem

27 Cfr. in particolare: P. Bernocchi, R. Mordenti, L’intellettualità di massa in movimento, Marx 101 n.2, 1990; P.Bernocchi, R.Mordenti, Perché i diecimila Zelig rialzino la testa, A sinistra n.1/2, 1990; P. Bernocchi, Per una critica del ’68, op. cit.; P. Bernocchi, Dal ’77 in poi, Massari Editore, Bolsena, 1997.

28 Il Pci prevedeva l’espulsione solo per “indegnità”; con la “radiazione” si voleva sottolineare l’incompatibilità politica: ma ovviamente il risultato era lo stesso.

29 l’Unità, 18 ottobre 1969; Il Manifesto, 31 marzo 2015 (testo integrale dell’intervento di Ingrao)

30 Rossana Rossanda, Pci e Praga, incertezze e viltà, Il Manifesto, 19 agosto 2018

31 L’editoriale uscì nel secondo numero della rivista, il 4 settembre 1969; il primo numero era stato pubblicato invece il 23 giugno.