IL BAMBINO E L’ACQUA SPORCA.  A proposito del “socialismo reale” e del comunismo novecentesco

(ottobre 2011)

“Critichiamo pure il ‘socialismo reale’ del Novecento. Ma non gettiamo via il bambino con l’acqua sporca”

“ Però è lui che ha sporcato l’acqua in mezzo mondo: e, ciò malgrado, non si è mai pulito”

Credo che una organizzazione si possa definire compiutamente politica, se oltre a promuovere e rafforzare la difesa e la conflittualità di questo o quel settore della società, si pone concretamente il problema del potere complessivo esistente sul piano economico e istituzionale nel proprio paese e a livello internazionale; se esprime una organica posizione rispetto ad esso, partecipandovi o scontrandovisi: e in questo secondo caso, se propone modifiche di riforma del sistema politico e del potere economico oppure trasformazioni radicali o rivoluzionarie; e in quest’ultima eventualità, se è in grado di delineare per sommi capi quali modalità e strutture della nuova realtà sociale ed istituzionale, del nuovo mondo possibile, auspichi; e infine, in caso si prefigga mutamenti radicali/rivoluzionari della società, se descrive per quali strade, con che strumenti e alleanze pensi di potere perseguire, o almeno tentare, il raggiungimento dell’obiettivo.

Dunque, se in particolare si intende operare per un drastico mutamento sociale e politico, se tra gli obiettivi prioritari di un’organizzazione o di un gruppo di individui c’è, almeno sulla carta, l’intenzione di lavorare per giungere a una società che non abbia più come principio-guida la ricerca del profitto economico individuale, di ceto o di classe, da parte dei settori dominanti a scapito dei ceti e classi più deboli – una società che escluda il dominio della merce, garantisca il superamento delle logiche di sfruttamento degli umani sugli umani, elimini la mercificazione degli individui, della natura, dei Beni comuni, delle idee, dell’istruzione, della salute e della cultura – allora una impresa così ardua e impegnativa, in quanto esplicitamente anticapitalista, richiede innanzitutto una esauriente resa dei conti con i precedenti tentativi di superamento del capitalismo stesso. Almeno per quel che riguarda l’impresa storica cruciale in tal senso: e cioè la fondazione, in numerosi paesi del mondo durante il Novecento, dei cosiddetti socialismi realizzati (o reali), cioè di quei sistemi politico-sociali ed economici caratterizzati dalla statalizzazione pressoché totale dei mezzi di produzione, dal dominio sulla società del Partito-Stato, dall’imposizione del Partito e del Sindacato unico, dall’assenza di un reale pluralismo politico e sindacale e della libertà di organizzazione autonoma dallo Stato e dal Partito dominante.

Nonostante il proliferare in Italia (più che altro per diaspora) negli ultimi venti anni di organizzazioni politiche richiamantisi ideologicamente al comunismo variamente inteso, e malgrado il fatto che molte di tali organizzazioni, a partire dalla più consistente, il Partito della Rifondazione Comunista (PRC), si fossero poste come obiettivo di partenza la rifondazione del comunismo teorico e politico, e innanzitutto una profonda analisi delle ragioni strutturali del tracollo del socialismo reale in Europa e altrove, a tutt’oggi tale analisi non è stata compiuta e appare assai vago cosa intendano concretamente per comunismo la quasi totalità di tali forze, peraltro sempre più piccole e ininfluenti; e sopratutto in che misura esso dovrebbe ricalcare, recuperare o modificare le orme del socialismo reale, piuttosto che abbandonarle del tutto ed incamminarsi in altre direzioni.

Dovrebbe apparire lampante che tale analisi è fondamentale se davvero si intende lavorare per il superamento del capitalismo. Seppure le ricette della “cucina dell’avvenire” non stanno negli attuali libri e sebbene sia presumibile che le forme di nuove società prenderanno vita quando i movimenti anticapitalistici assumeranno una potenza e un collegamento planetario davvero esplosivi, pur tuttavia avere le idee chiare su cosa è stato davvero esiziale, e da cancellare, delle precedenti e fallite esperienze di fondazione di società post-capitalistiche, è decisivo anche per la cucina del presente e cioè per una strategia dell’hic et nunc che caratterizzi l’agire politico, sindacale e sociale nonché la struttura e le finalità organizzative, la politica delle alleanze, le modalità di costruzione di un ampio fronte anticapitalistico in Italia e a livello globale.

E’ davvero sorprendente che davanti a domande così cruciali le centinaia di migliaia di militanti che in Italia si dichiarano comunisti e che sembrerebbero alla spasmodica ricerca della “unità dei comunisti” non siano stati e non siano in grado di dare una risposta organica: clamoroso in particolare il caso del PRC, la più consistente di queste forze nell’ultimo ventennio, che ha affastellato insieme le tesi più contraddittorie, ambigue e lacunose sul tema, con teorici della “dittatura del proletariato” e del parlamentarismo borghese, stalinisti e spontaneisti, trotzkisti e operaisti, socialisti e anarco-luxemburghiani, socialdemocratici e liberaldemocratici,  tutti insieme nello stesso partito, fino ai livelli massimi dei suoi organi dirigenti. Se dovessi concentrare in una battuta la linea di galleggiamento tenuta da questi comunisti, potrebbe essere la seguente: facciamo pure tutte le dovute critiche al socialismo reale, ma non buttiamo via il bambino con l’acqua sporca. Frase furbastra, apparentemente saggia e mediana nella forma, ma del tutto elusiva e insignificante nella sostanza, non essendo accompagnata né dall’elenco fattivo e approfondito delle dovute critiche a tale pur ciclopica esperienza, né soprattutto dalla consapevolezza che il bambino ha continuato per decenni a sporcare l’acqua senza pulirsi mai. E cioè, fuor di metafora, è stata immane responsabilità storica dei regimi “comunisti” stalinisti quella di aver sporcato indelebilmente non solo la prospettiva del comunismo ma anche quella di qualsiasi trasformazione della società che intenda travalicare il capitalismo.

Dunque, fare i conti a fondo con la sporcizia del bambino è anche la premessa fondante del recupero dell’acqua pulita. Tale resa dei conti con l’intera esperienza del socialismo reale non significa fare concessioni al capitalismo o tantomeno rinunciare al suo superamento: ma al contrario mi pare la premessa indispensabile per edificare l’anticapitalismo attuale, per gettare le basi teoriche e pratiche del possibile e auspicabile benicomunismo del XXI secolo, espressione che uso per indicare una società post-capitalistica non fondata sul profitto e sulla mercificazione dell’esistente ma sulla socializzazione democratica di tutto ciò che è considerato Bene comune e capitale sociale, in assoluta distanza e alternativa alle esperienze di potere del comunismo novecentesco e ricercando le possibili nuove forme della democrazia reale e integrale.

Dal 1968 i mancati conti con il “socialismo realizzato”

Per la verità, a più di quaranta anni di distanza, può apparire sorprendente che un movimento come quello del 1968, così potentemente anti-autoritario e impegnato nella demistificazione e disvelamento della reale natura del potere economico e politico capitalista, non sia riuscito a fare altrettanto con la storia del “socialismo realizzato” e con la natura delle concrete società “socialiste” esistenti: e che, ancor meno, ci si siano dedicati con un qualche successo l’infinita schiera di gruppi, partitini e movimenti che hanno occupato il campo del conflitto sociale in quello che abbiamo ripetutamente definito il decennio rosso1 italiano, dal 1968 al 1977. Nonostante l’incessante attività ideologica, culturale e politica di centinaia di migliaia di militanti anticapitalisti, sorprendentemente quel decennio non volle arrivare al cuore di una questione così cruciale e fare davvero chiarezza sul tema basilare del potere nelle società “socialiste”, lasciandolo inevaso nei confronti delle generazioni successive, almeno fino all’avvento, all’inizio del 21° secolo, del movimento no-global o altermondialista. La critica della politica politicante quale sfera separata dalla società, come luogo alienante ed espropriante di ogni possibilità di autodeterminazione dell’individuo, e la ripulsa verso lo statalismo, l’autoritarismo e le gerarchie, avrebbero dovuto portare il movimento del ’68, e le sue più o meno legittime successive filiazioni politiche, ideologiche e culturali, a ripudiare non solo la tradizione del movimento comunista internazionale ad egemonia staliniana ma anche la contemporanea realtà dei paesi del “socialismo realizzato”, smascherando le costruzioni ideologiche che ne supportavano la concreta struttura. L’idea di comunismo che dominava nel movimento del ‘68 era centrata sull’autogoverno dei salariati e delle masse popolari, sul consiliarismo/soviettismo, sulla democrazia diretta, sull’anti-autoritarismo, sull’egualitarismo e sul rifiuto delle forme e strutture gerarchiche, in un impasto per la verità più vicino all’anarchismo libertario che all’idea e alla pratica di comunismo fino ad allora dominante: e in ogni caso di certo molto distante dal comunismo terzinternazionalista, matrice della stragrande maggioranza delle società a “socialismo reale”. Una tale impostazione avrebbe dunque dovuto spingere all’ostilità nei confronti di quei regimi che, in Europa e fuori, erano al contrario fondati sulla statalizzazione totale dell’economia – dalla grande industria al piccolo negozio – sulla massima gerarchizzazione e autoritarismo, sull’incontrastata dittatura del Partito Unico, possessore e gestore onnipotente di un sistema originale a capitalismo di Stato (la cui massima e più avanzata espressione possiamo vedere limpidamente in questi anni in Cina), in mano ad oligarchie in buona parte autolegittimantesi e non certo ad un proletariato sfruttato dal capitalismo di Stato così come in precedenza da quello privato, impedito non solo ad esercitare la sua presunta “dittatura” ma persino ad avere la più elementare difesa sindacale, e in realtà controllato e narcotizzato dal Sindacato unico.

Certo, il ’68 e il decennio successivo manifestarono grande avversione teorica nei confronti dell’Urss e del suo imperialismo: ma contemporaneamente fecero in larga parte della Cina, del maoismo e della Rivoluzione Culturale i loro  riferimenti ideologici e politici, malgrado si trattasse di un sistema sociale, politico, economico e ideologico che dal punto di vista strutturale (al di là, insomma, del fumo propagandistico) differiva dall’Urss staliniana e post-staliniana meno di quanto, ad esempio, la Svezia e l’ideologia socialdemocrazia nordeuropea si differenziassero nel campo capitalista dall’Italia e dall’ideologia democristiana. Dunque, non si consumò, almeno fino al movimento del ’77, il distacco teorico, politico e ideale dall’intera esperienza e dal grandioso imbroglio storico delle sedicenti “dittature proletarie”: ma più semplicemente si spostarono le speranze e gli investimenti politici, ideali e culturali dal “socialismo” dell’Est europeo a quello dell’Est asiatico, latinoamericano e terzomondista. Certamente dietro questa dislocazione ci fu anche la grande attenzione, di per sé feconda, al Sud del mondo, alle lotte di liberazione nazionale che mettevano in crisi l’egemonia dell’imperialismo nordamericano; c’era il fascino della straordinaria vicenda politica e umana dei Che Guevara, degli Ho Chi Minh, dei partigiani vietnamiti e dei guerriglieri latinoamericani contro infami dittature: ma questo portò a sottovalutare la pesante realtà di strutture che, una volta consolidatesi in Stati nazionali indipendenti, si rivelarono totalmente dominate dal Partito-Stato, profondamente a-democratiche, gerarchiche, piramidali, con vistose diseguaglianze sociali, con pochi privilegiati issati sulla testa dei settori popolari, sfruttati in forme nuove, pur se in cambio sovente di servizi sociali basilari ma la cui quantità e qualità restavano – anche in quei paesi dell’Est europeo con basi produttive non arretrate – nettamente inferiori a quelle dei paesi capitalistici più sviluppati.

Insomma, si può dire che il notevole movimento anticapitalista del ’68, pur mettendo in crisi l’ideologia dominante in gran parte dei paesi dell’Occidente, non elaborò sul post-capitalismo un pensiero compiuto e alternativo rispetto alla pratica dei socialismi reali e alle teorie imperanti nel comunismo novecentesco. Nonostante tutti i punti-chiave delle esperienze del “socialismo realizzato” fossero già pienamente disvelati durante gli anni ’60 (un anarchico aggiungerebbe: “e da parecchi decenni”), non fummo capaci di smascherare, così come andavamo facendo per la concreta realtà del capitalismo occidentale, la falsa coscienza insita nella teoria della dittatura del proletariato, metafisica mascheratura della prosaica dittatura del Partito-Stato. Dovemmo attendere il movimento del ’77 – che però, stroncato prematuramente e cancellato nei lasciti, non riuscì a modificare l’impianto complessivo dell’anticapitalismo italiano né a delineare le nuove forme di esso – per intravedere quanto fosse distruttivo e senza speranze teorizzare per le società post-capitalistiche, impostandoci anche le strategie politiche, la completa statalizzazione e la monocrazia partitico-statuale, con la inevitabile assenza di libertà di organizzazione politica, sindacale, sociale e culturale per tutti coloro estranei ed esterni al Partito-Custode.   

Lo Stato come capitalista collettivo e l’utopia del liberismo  

L’intera parabola storica delle società “socialiste” del Novecento dovrebbe aver dimostrato come l’essenza della proprietà capitalistica sia qualcosa di più sostanziale rispetto alle pure forme giuridiche del possesso dei mezzi di produzione da parte di singoli o di gruppi di individui: e di come, anzi, le forme giuridiche della proprietà in tali società abbiano finito per celare, e capovolgere, i reali rapporti di produzione. Il possesso esclusivo, unilaterale e indiscutibile dei principali mezzi di produzione in forma capitalistica non necessita obbligatoriamente della proprietà personale (di singoli o di famiglie) di essi, sancita da precise norme giuridiche. Nella sostanza, si può avere proprietà capitalistica da parte del capitale nazionale “pubblico”, gestito in forma di capitalismo di Stato, come si può ben osservare oggi in Cina ancor più nettamente che nell’Est europeo novecentesco. E in tal senso ritengo che, pur senza proprietà individuale dei mezzi di produzione, la possibilità incondizionata –  avendo l’esclusiva del potere politico statuale – da parte di gruppi sociali di usare i mezzi di produzione e il plusvalore sottratto ai diretti produttori a propria completa discrezione e secondo i propri interessi, garantendo al contempo la valorizzazione del capitale statale nazionale, non sposti di un passo in avanti il processo di liberazione dallo sfruttamento e la diffusione dell’eguaglianza e della giustizia sociale.

Pur con le dovute differenze da paese a paese, possiamo leggere la struttura economico-sociale dell’Urss dagli anni’20 all’89 e degli altri paesi dell’Est europeo appunto come un capitalismo di Stato pianificato, una sorta di gigantesco trust nazionale, diretto e gestito assolutisticamente dal Partito unico di Stato, coesistente con forme assolutamente subordinate di proprietà cooperativo-collettivistica nelle campagne e marginalmente nelle città, o, nel caso odierno della Cina che ha portato all’apogeo e al massimo successo tale modello, con forme di proprietà privata di aziende da parte di importanti gruppi produttivi multinazionali sotto il controllo politico del capitale statale. In questi paesi la statalizzazione del capitale e dei mezzi di produzione e l’espropriazione dei capitalisti privati non hanno provocato né la fine del processo di valorizzazione del capitale (non certo travolgente nell’Urss del Novecento rispetto all’accelerazione imposta ad esso nella Cina del XXI secolo), né la socializzazione – cioè l’uso sociale democraticamente organizzato, secondo criteri socialmente condivisi – dei mezzi produttivi, industriali e finanziari, intesa come piena possibilità di intervento da parte dei salariati e dei settori popolari nella direzione e gestione della struttura produttiva e distributiva della ricchezza. Il rapporto tra Capitale e Lavoro è rimasto immutato nella sostanza, come pure lo sfruttamento delle forze-lavoro: anzi queste ultime nelle società “socialiste” venivano comprate dallo Stato-padrone in condizioni di assoluto monopolio.

Il colossale abbaglio teorico e politico che ha portato a confondere l’eliminazione della proprietà privata individuale con la fine del processo di produzione capitalistica – e di conseguenza l’esaltazione del carattere progressivo del monopolio statuale sui mezzi di produzione e sulla distribuzione della ricchezza – ha avuto un rilevantissimo corrispettivo anche ad Ovest, nelle società a capitalismo privato sviluppato. La quasi totalità del pensiero marxista e delle organizzazioni politiche, sindacali e sociali richiamantisi al socialismo e al comunismo hanno pressoché sempre sottolineato acriticamente la positività della statalizzazione dei mezzi di produzione, confondendo proprietà statale e proprietà sociale. Vedremo più avanti come questo abbaglio abbia avuto anche precisi motivi materiali, di interessi strutturali da parte dei gruppi sociali che di esso si sono fatti portavoce. Non va sottovalutato però che nel cuore stesso del pensiero marxiano, nella elaborazione di Marx, Engels e dei loro epigoni ottocenteschi, ci fu una sorprendente sottovalutazione del ruolo degli Stati come capitalisti collettivi: tra le poche, seppur rilevanti, eccezioni quanto Engels scrisse nella ultima parte della sua vita nell’Anti-Duhring:

Se il modo di produzione capitalistico ha cominciato con il soppiantare gli operai, oggi  soppianta i capitalisti e li relega tra la popolazione superflua…Ma né la trasformazione in società anonime, né in proprietà statale, sopprime il carattere di capitale delle forze produttive. Lo Stato moderno è una macchina essenzialmente capitalistica, il capitalista collettivo ideale. Quanto più si appropria le forze produttive, tanto più diventa capitalista collettivo, tanto maggiore è il numero di cittadini che sfrutta. Il rapporto capitalistico non viene soppresso, viene invece spinto al suo apice2.

E la Cina attuale, o più precisamente il suo Stato, rappresenta esattamente il capitalista collettivo ideale previsto da Engels (anche se né lui né Marx ne trassero alcuna indicazione politica e strategica per la transizione oltre il capitalismo), l’epifenomeno di questo processo di spinta verso l’apice capitalistico. Anche nel pensiero marxista novecentesco in Italia, con poche eccezioni significative3, il ruolo dello Stato non come organo politico di controllo e repressione al servizio dei padroni ma come vero e proprio capitalista collettivo è stato grandemente sottovalutato, se non ignorato del tutto, in particolare da parte delle forze politiche e sindacali che agivano in nome del comunismo e del socialismo. In verità, fin dall’affermarsi internazionale dei primi Stati capitalisti (Inghilterra in primis), il nuovo sistema non è mai stato affare solo di singoli capitalisti privati in “libera” competizione per l’accaparramento dei mercati: il liberismo economico, accompagnato dal non-interventismo in economia degli Stati, è sempre stato una utopia del capitalismo, pura ideologia nel senso marxiano di falsa coscienza, un sublime imbroglio teorico e politico per imporre l’unico vero liberismo di questi ultimi secoli, quello in materia di libero e del tutto sregolato sfruttamento della forza-lavoro indifesa. Se andiamo alla voce “liberismo” in un buon dizionario di Economia leggiamo che esso sarebbe un sistema “imperniato sulla libertà del mercato, in cui lo Stato si limita a garantire con norme giuridiche la piena libertà economica e a provvedere soltanto ai bisogni della collettività non soddisfacibili per iniziativa dei singoli, e nel quale c’è altrettanta piena libertà economica del commercio internazionale e si realizza un libero scambio, in contrapposizione al protezionismo economico e commerciale”.

Ora, quale persona appena informata e in buona fede potrebbe sostenere che l’attuale sistema economico mondiale sia strutturato sulla base di un libero scambio scevro da qualsiasi forma di protezionismi o presenze monopolistiche che falsifichino o annullino di fatto,  quotidianamente, la “libertà del mercato”? Chi, non pagato per farlo, può seriamente negare che gli Stati più potenti agiscano in continuazione per violentare il “libero mercato”, tanto più dopo il  ciclopico intervento – che ha movimentato cifre colossali e senza precedenti – dei principali Stati nazionali capitalistici per tamponare la crisi economica e finanziaria esplosa nel 2007-2008, e mentre, per di più, pratiche protezionistiche statuali dilagano ovunque e sono oggetto di contesa feroce tra le principali potenze mondiali? Non è forse oggi più lontana che mai la descrizione agiografica di un mondo economico ove una domanda e una offerta polverizzate si incontrerebbero liberamente in un mercato aperto e indenne da interventi politico-statuali e monopolistici?

Per la verità, il liberismo economico, come descritto dai cantori di Monsieur le Capital, non è mai esistito, fin dai primordi del capitalismo. Quest’ultimo non è mai stato, sua sponte, liberista. Lo ricordò così qualche anno fa, in maniera tranchant ma efficace, il regista statunitense Michael Moore a chi lo criticava per i suoi film anti-padronali: “In realtà i capitalisti americani non credono al libero mercato e alla concorrenza. Sono tutti socialisti finché il governo si occupa di loro, impone alle amministrazioni locali di costruire qualsiasi cosa di cui abbiano bisogno, finché il governo diminuisce le loro tasse e aumenta quelle degli altri. In questo credono: ma non amano la concorrenza e preferiscono che qui le macchine giapponesi non vengano vendute. Poi si riempiono la bocca con l’impresa, il libero mercato e la competizione”.

Insomma: i singoli capitalisti hanno sempre odiato la concorrenza e il “libero” mercato, rivelandosi ultrastatalisti, come ironicamente segnalava Moore, ogni volta che vogliono ricevere dallo Stato e dalla collettività e, al contrario, ultraliberisti quando intendono – cioè quasi sempre – sottrarsi ai doveri verso la società. L’unico liberismo vero che i capitalisti hanno sempre desiderato è quello nel mercato del lavoro e nei servizi sociali. Solo in questi campi il padronato vorrebbe – e cerca di imporre politicamente –  una concorrenza priva di regole, occupati contro disoccupati, stanziali contro migranti, giovani contro anziani, precari contro “stabili”, in una lotta senza esclusione di colpi che faccia abbassare il più possibile il costo del lavoro, presentando tutti i salariati atomizzati di fronte al padrone-acquirente; e analoga, libera e selvaggia concorrenza senza regole tanti capitalisti auspicano nel campo dei servizi sociali e pubblici, quel territorio di salari differiti o integrativi che i lavoratori/trici avevano conquistato in decenni di dure lotte, che si erano tradotte in istruzione, sanità e assistenza sociale più o meno gratuite, pensioni, e in Beni comuni non sottoposti alla legge del profitto e della merce. Dunque, solo in tal senso è corretto parlare di neoliberismo per il capitalismo dei nostri giorni: mentre del tutto infondata – luogo comune assai diffuso negli anni passati anche all’interno del  movimento anti-globalizzazione (altermondialista), indotto in parte da pigrizia analitica ma forse soprattutto dalla malcelata volontà di assolvere parecchi governi di “sinistra” per le loro concrete e decisive malefatte – dovrebbe apparire oramai, soprattutto dopo i titanici interventi statuali anti-crisi dal 2008 in poi, la tesi secondo la quale il neoliberismo dominante avrebbe ridotto a puri simulacri gli Stati nazionali.

Alla base di questo eclatante errore teorico e politico c’è, come in gran parte della storia del pensiero anticapitalista occidentale del secolo scorso, una minimizzazione e distorsione del vero ruolo degli Stati fin dal momento in cui il capitalismo divenne il sistema economico dominante in Occidente, delle loro funzioni da cervello capitalista collettivo, in grado di limitare, controllare e incanalare in qualche modo l’”anarchismo” dei singoli capitali e le oscillazioni troppo violente dei cicli economici, di effettuare i grandi investimenti a lunga gittata nei settori di sviluppo (l’altro ieri nelle ferrovie e nell’elettrificazione del territorio, ieri nella chimica e nella meccanica, oggi nell’elettronica e nell’informatizzazione del mondo: insomma, dai treni per il Far West a Internet) ove i singoli capitali mai si impegnerebbero – lavorando essi quasi esclusivamente sul “qui ed ora” – nonché i fondamentali interventi riparatori dopo le crisi. Non è stata forse una lezione magistrale e decisiva, sul campo, quella fornita dai principali Stati occidentali che nel 2008, nel giro di pochi giorni, hanno mobilitato somme colossali, pari all’intero PIL annuo di importanti nazioni, per tappare le mastodontiche falle create dall’”anarchia” dei capitali privati, concentrati in banche, conglomerati finanziari e assicurativi?

Sembrerebbe che negli ultimi tempi tale lezione cominci ad essere assimilata dai movimenti anticapitalisti mondiali. Gli Stati (ovviamente quelli sufficientemente forti) continuano ad adempiere – e tanto più ora, durante la più profonda e prolungata crisi economica e finanziaria della storia del sistema capitalistico occidentale, che lo avrebbe fatto tracollare senza l’intervento massiccio e coordinato delle principali strutture statuali ad Ovest e a Est – alle loro funzioni di capitalista collettivo e ai loro interventi di supporto, correzione, soccorso e stimolo dell’economia privata. E lo fanno svolgendo ruoli di sovvenzione (trasferiscono in continuazione ricchezza pubblica alle imprese private), di finanziatore (metteno a disposizione altra ricchezza attraverso forme di credito iper-agevolato o, come nel caso di tanti interventi anti-crisi degli ultimi anni, di donazione gratuita), di committente (offrono commesse e contratti in continuazione), di imprenditore diretto (producendo in prima persona merci e servizi, nonché mercificando una parte dei servizi pubblici in comproprietà con il capitale privato), di regolatore (difendendo il capitale privato e quello di Stato dalla penetrazione dei  concorrenti, indirizzando e limitando certe funzioni produttive a vantaggio o a danno di questo o quel gruppo privato a seconda degli interessi predominanti nell’intero fronte capitalistico nazionale).

E’ lo Stato a coprire le spalle a qualsiasi multinazionale, a fornirgli l’hardware, e cioè il sostegno politico, finanziario, tecnologico-scientifico e, sempre più spesso, militare. Non è vero che le multinazionali sono davvero globalizzate, cioè disincarnate da un territorio, da una nazione, da uno Stato. Per quanto estese come presenza e operatività mondiale, esse, per agire con il massimo profitto, hanno comunque e sempre bisogno di retrovie sicure, garantite a livello nazionale da una potente struttura statuale, politica, militare. Cosicché, il loro cuore, per quanto siano diffuse nel mondo le loro membra e le loro articolazioni periferiche, resta nazionale, difeso da un intero apparato statale: e così il capitale di base, il grosso del gruppo dirigente, la sede del know how, i punti di forza scientifici, tecnici e politici. Che cosa sarebbe di Google o dell’Ibm, della Toyota, della Monsanto o della Sony se decidessero di abbandonare il potentissimo supporto/retroterra ad esse fornito dagli Usa o dal Giappone e si trasferissero – cuore, muscoli, cervello – ad esempio in Sierra Leone o Bangla Desh?

La gestione della attuale crisi mondiale da parte dei principali Stati, e le loro forme, seppur conflittuali, di coordinamento di fronte all’emergenza, dovrebbero aver fatto piena luce rispetto a quella lettura sbagliata del sistema dominante che aveva avuto largo credito anche nel movimento altermondialista, da Seattle a Genova fino ai primi Forum Sociali mondiali di Porto Alegre4: una interpretazione che vedeva il potere globale capitalistico incarnarsi in una specie di Coordinamento delle Multinazionali, una sorta di Spectre globalizzata ed extraistituzionale che, scavalcando ed ignorando anche gli Stati più potenti, avrebbe poi affidato ad organismi transnazionali ed extrastatuali come il Wto, il Fmi, il G8 e la Banca Mondiale il ruolo di meri esecutori della sua volontà. Un errore peraltro aggravato dall’ineludibile constatazione che le strutture politico-economiche sovranazionali prima citate (Wto, Fmi, BM, e oggi G20 più che G8), lungi dall’essere strutture autonome dai poteri statali, sono costituite, come ognuno può verificare, da funzionari pubblici dei singoli Stati (con prevalenza, ovviamente, di quelli più potenti), nominati, stipendiati e revocati non certo dalle multinazionali ma dai governi dei paesi dominanti. Dunque, si tratta di un personale politico che attacca il carro dove vogliono gli Stati e i governi che in tal luogo lo hanno collocato. Di certo non è gente che può dettar legge ai paesi e agli Stati capitalistici più forti e ai loro governi: piuttosto lo fa o cerca di farlo, ma a nome di tali Stati e di tali governi, nei confronti dei paesi e degli Stati più deboli, poveri e subordinati.

In ogni caso tali strutture sovranazionali non sono certo le portabandiera del liberismo, del libero scambio e del libero mercato. In realtà le barriere protezionistiche tra paesi o tra blocchi di nazioni continuano ad essere attivate ogni volta che se ne senta la necessità da parte delle maggiori potenze. Una vera globalizzazione aperta dei mercati non è operante e le regole dei commerci sono contrattati politicamente tra le grandi potenze, in base al sempre valido schema dei rapporti di forza tra di esse: le quali poi, qui sì concordemente, cercano di imporre ai paesi più deboli la mutazione del “libero scambio” in permanente e concreto scambio ineguale e coatto. Per giunta, nell’ultimo decennio nuove e rampanti potenze sono entrate nell’arena con ruoli da protagoniste. Non soltanto le più rilevanti tra di esse, Cina, India e Russia, ma anche paesi come ad esempio il Sud Africa, il Brasile, la Turchia, l’Indonesia, la Corea del Sud, l’Iran, senza contare le nuove democrazie progressiste che cercano di affermarsi in America Latina, stanno imponendo un multilateralismo che lascia sempre meno spazio agli Stati Uniti – che però restano ancora l’imperialismo più forte – e all’azione degli organi transnazionali al servizio degli USA e dei loro alleati, quando questi mirano all’abbattimento unilaterale delle barriere difensive degli Stati del Sud del mondo.

Peraltro è fallita la strategia statunitense dell’ultimo decennio, quella della guerra permanente e globale per riconfermare un dominio storico e imporre agli Stati più deboli di spalancare le porte (“altrimenti ve le sfondiamo”) alla penetrazione economica e politica USA. Lungi dal dimostrare una egemonia incontrastata, un dominio imperiale senza ostacoli, come molti affermarono al momento dell’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq, il ricorso planetario all’arma bellica più spietata ha messo in luce quanto tale potere sia vacillante sul piano prettamente economico e di quanto sia messo in discussione dagli Stati emergenti e concorrenti, che, di fronte alla crescente deperibilità/limitatezza delle risorse produttive disponibili, sempre più diffusamente ne rivendicano la riappropriazione dopo decenni o secoli di subordinazione e spoliazione, non facendosi più intimidire dalla macchina guerresca degli Stati Uniti.

La borghesia di Stato ad Est 

Più o meno analogamente alla sottovalutazione del ruolo dello Stato come capitalista collettivo, il pensiero prevalente nella sinistra anticapitalista del Novecento ha pure minimizzato il vero ruolo del ceto politico sia nel capitalismo occidentale sia nel “socialismo realizzato”: anche se certamente si è  discusso a lungo, in campo marxista e comunista, sulla reale natura del Partito-Stato e del suo personale politico nei regimi dell’Est (classe o ceto burocratico? e di conseguenza: capitalismo di Stato oppure socialismo burocratico, degenerato politicamente ma recuperabile come struttura economica e produttiva socialista?). Per quel che ha riguardato i paesi del capitalismo occidentale, la lettura del pensiero prevalente a sinistra sul ruolo dei ceti politici istituzionali e di governo è stata piuttosto monocorde, considerando tali ceti una specie di pura struttura di servizio per la borghesia dominante, per il padronato e per il capitale privato, una specie di funzionariato intercambiabile, servizievolmente prono nell’esecuzione dei comandi e delle direttive padronali. Per ragioni forse di vicinanza politica e dunque di riluttanza nell’andare a fondo sulla natura vera dei “socialismi” al potere, è stata davvero povera durante il secolo scorso la riflessione teorica dei partiti socialisti e comunisti occidentali sullo stesso concetto di classe, al fine di comprendere a fondo cosa fosse cambiato per questa categoria marxiana con l’avvento del “socialismo reale” e con la grande espansione del ruolo di gestione da parte dello Stato e del suo personale ad Est e a Ovest. Alla luce di tale povertà, tutto sommato resta un punto di riferimento persino la definizione leniniana, malgrado essa abbia oramai più di un secolo di vita, al fine di determinare il senso attuale di tale categoria. Scrisse Lenin al proposito:

Si chiamano classi quei grandi gruppi di persone che si distinguono tra loro per il posto che occupano in un sistema storicamente determinato di produzione sociale, per il loro rapporto, per lo più sanzionato e fissato da leggi, con i mezzi di produzione, per la loro funzione nell’organizzazione sociale del lavoro e, quindi, per il modo in cui ottengono e per la dimensione che ha quella parte di ricchezza sociale di cui dispongono. Le classi sono gruppi di persone, l’uno dei quali può appropriarsi il lavoro dell’altro grazie al differente posto che occupa in un determinato sistema di economia sociale5.

La definizione leniniana ha due aspetti di particolare interesse. Essa precisa innanzitutto che il rapporto di una classe con i mezzi di produzione è per lo più, ma non sempre né necessariamente, sanzionato da leggi: in ogni caso non è da esse determinato, cioè la formalizzazione giuridica del rapporto di classe non è indispensabile perché una forma proprietaria, di possesso sostanziale, esista di fatto. In secondo luogo, è il rapporto del gruppo con i mezzi di produzione, piuttosto che solo quello del singolo, che va preso in esame. Più precisamente: la sostanza dei rapporti di classe, e in particolare dei rapporti di proprietà e di possesso dei mezzi di produzione, va ricercata nelle relazioni concrete, nelle funzioni materiali esercitate dal “gruppo di persone” (ceto o classe che lo si voglia definire) nella struttura organizzata che gestisce e decide sulla produzione e sulla distribuzione di merci e prodotti; e nelle rigide differenze tra i ruoli di tali gruppi derivate dalla divisione concreta del lavoro (indipendentemente da ciò che l’ideologia o i formali rapporti giuridici dicono o lasciano credere), che determinano poi anche il modo e le dimensioni dell’appropriazione della ricchezza sociale da parte della classe/ceto al vertice.

Ora, se guardiamo ai concreti rapporti di produzione nei paesi “socialisti”, togliendo il velo ideologico e le fumisterie giuridiche di copertura, se prendiamo come riferimento per il concetto di classe la definizione leniniana, non è una forzatura definire in tal modo quell’amplissimo gruppo sociale organizzato nel Partito-Stato, nel Sindacato unico e nella burocrazia statale che gestiva tutta la macchina produttiva e che di fatto era il possessore reale (nel senso di poter disporre a piacimento di essi, delle decisioni e dell’uso in merito) di tutti i principali mezzi di produzione e di distribuzione nell’Est europeo del secolo scorso. Esso ne era proprietario collettivo nel senso più ampio e profondo del termine, in quanto, in assenza di pluralismo politico o di luoghi democratici di decisione pubblica sulla produzione e sulla distribuzione dei prodotti e della ricchezza all’interno della società, aveva illimitato potere decisionale sulle finalità, sulla organizzazione e modalità del processo produttivo e sulla distribuzione dei prodotti. Oltretutto, anche nel capitalismo privato classico buona parte della proprietà è esercitata in forma “cooperativa”, con analoghi proprietari collettivi, come nelle società per azioni: la proprietà individuale anche ad Ovest è andata riducendosi e concentrandosi in gruppi di persone associate; e l’intreccio tra i detentori formali della proprietà (i capitalisti) e i gestori di questa proprietà (gli amministratori delegati e affini) non è oramai meno indistricabile di quanto sia stato ad Est tra i membri di quella nomenclatura che io definisco borghesia di Stato. Peraltro, a ben guardare, neanche il presunto ostacolo della mancata formalizzazione giuridica di tale borghesia di Stato e delle sue specifiche forme di possesso è davvero tale sul piano concreto, se si pensi che in definitiva la legge nei paesi “socialisti” assegnava tale potere, giuridicamente, alle strutture statuali formali: e che queste ultime erano a loro volta proprietà, formalizzata anch’essa, del Partito Unico, coincidente con gli apparati statuali.

Intellettuali e “ceti medi”, esponenti delle professioni autonome cittadine, ex-operai (in misura limitata), burocrati di vario tipo organizzati nel Partito-Stato potevano essere considerati a tutti gli effetti, nei paesi “socialisti”, una classe, e più precisamente la classe proprietaria/dominante, in quanto: a) erano di fatto proprietari dei mezzi di produzione, anche se non in modo individuale, mediante la forma collettiva del Partito (come una specie di enorme società per azioni, o holding di gestione del capitalismo statale); la proprietà partitica era anche sanzionata da leggi che, registrando la statalizzazione totale delle attività economiche principali, della produzione e della distribuzione, nonché il possesso dello Stato e del capitale nazionale da parte del Partito, dichiaravano per proprietà transitiva quest’ultimo vero proprietario dei mezzi di produzione principali; b) nell’organizzazione sociale del lavoro avevano una funzione insindacabile e ineliminabile di direzione, decisione, controllo, senza reali possibilità di ricambio (o meglio: non più di quanta ce ne sia in una Società per azioni ad Ovest); e al contempo, nessun potere di accedere alle stesse funzioni di gestione dei Piani e delle direttive economiche avevano la massa di lavoratori, salariati, settori popolari, privati di qualsiasi strumento democratico che consentisse di far divenire la formale proprietà statale effettiva proprietà comunitaria, sociale, davvero pubblica e collettiva; c) grazie alla propria collocazione nei meccanismi produttivi e proprietari, godevano di notevoli vantaggi nella distribuzione della ricchezza pubblica, potendosi appropriare, relativamente indisturbati, di quote del prodotto globale, nonché di vari privilegi inaccessibili alla grande maggioranza della popolazione.

Dunque, credo che questi gruppi possano essere denominati a buon diritto classe proprietaria, borghesia di Stato, impossessatasi dell’apparato produttivo e distributivo tramite il Partito-padrone. Tale classe poteva appropriarsi, senza effettivi ostacoli politici e sindacali a causa del mono-partitismo e mono-sindacalismo, di una parte considerevole del prodotto dei salariati, per destinarlo – oltre che al proprio consumo, al miglioramento del proprio ruolo e delle proprie condizioni – anche alla perpetuazione e al rafforzamento del capitale di Stato, fonte concreta e permanente del proprio potere. Di contro, i lavoratori dipendenti, nell’industria, nel pubblico impiego e nelle campagne, ricevevano in cambio del lavoro un salario appena sufficiente alla propria “riproduzione”, esattamente come nelle società occidentali, oltre ad una serie di servizi sociali gratuiti ma di qualità e quantità inferiori a quelli che il capitalismo andava via via garantendo in gran parte dell’Ovest e dell’Europa ai settori popolari e salariati, sotto la pressione congiunta di grandi lotte popolari e del richiamo alla collettivizzazione ad Est. Perciò, il passaggio ad Est dalla proprietà capitalistica privata dei principali mezzi di produzione a quella apparentemente pubblica, ma di fatto a capitalismo di Stato – gestito da una classe simile a  quella degli amministratori delegati e degli azionisti capitalisti ad Ovest – non ha provocato alcun processo liberatorio del lavoro salariato, nessuna fine dello sfruttamento del lavoro e della sua rigida divisione, nessuna instaurazione di vere forme di proprietà collettiva e comunitaria, sulle quali si potesse esercitare un controllo decisionale davvero democratico e partecipato. L’unica classe a migliorare decisamente le proprie condizioni è stata la borghesia di Stato, incarnata nella direzione partitico-statale, nei gruppi dirigenti dell’industria, delle cooperative agricole di Stato, negli apparati commerciali, delle banche, dell’esercito  e dei mass-media, tutti statali, che avevano fatto del “socialismo” la loro copertura ideologica e politica.

E d’altra parte questa analisi ha ricevuto una conferma schiacciante nel tracollo improvviso e rapidissimo dell’intero apparato “socialista”. Apparirebbe del tutto incomprensibile, anzi impossibile, che una effettiva proprietà collettiva e comunitaria possa aver assistito senza batter ciglio, anzi con entusiasmo e manifestazioni di giubilo diffuse, alla sua espropriazione da parte del ritornante capitalismo privato: mentre appare del tutto comprensibile che, di fronte al tracollo del sistema, gli unici davvero interessati alla sua difesa, cioè i poteri concentrati nell’apparato partitico e statuale, abbiano semplicemente deciso di cambiare casacca, divenendo in gran parte neo-proprietari privati di ciò che restava dell’apparato produttivo, industriale, commerciale e distributivo “pubblico”: mentre i salariati e i settori popolari, comunque sfruttati e sottomessi, non hanno trovato motivi per difendere le proprie “conquiste”, sperando anzi – vanamente – che, con la demolizione del potere monocratico e con la fine della statalizzazione totale, si potessero riconquistare positive strutture di democrazia politica ed economica.

Ceti politici e capitale di Stato in Occidente

Soprattutto dopo la Rivoluzione russa, connotati non dissimili ha avuto ad Ovest, e in particolare nei paesi europei dove più forte è risultato il connubio tra capitalismo privato e di Stato, una classe sorella a quella che per l’Est ho chiamato borghesia di Stato. Ho già detto che, a mio parere, la funzione dello Stato nella storia del capitalismo è soprattutto quella di capitalista collettivo. Tale funzione però, seppure è riscontrabile fin dai primordi, si è andata incrementando assai durante tutto il secolo scorso, con un’accelerazione vistosa dopo la Rivoluzione russa. I tre eventi che hanno terremotato la prima metà del Novecento, e cioè le due guerre mondiali e l’instaurazione della società “socialista” in Russia e altrove, hanno esteso a dismisura le funzioni dello Stato come gestore e garante del capitale nazionale ed hanno ingigantito, a partire dal ventennio di affermazione del nazi-fascismo, le funzioni dello Stato come imprenditore diretto, finanziatore, sperimentatore e investitore, appaltatore e compensatore (soprattutto nel caso di crisi) di capitale.

La concorrenza per l’egemonia mondiale, indotta dalla Rivoluzione russa, ha poi accelerato in un Ovest, incalzato da potenti lotte politiche, economiche e sociali, la costruzione di un vasto Stato sociale, molto esteso in alcuni paesi e comunque novità rilevantissima rispetto al capitalismo ottocentesco. Il timore di perdere il controllo dei salariati e dei settori popolari, sotto l’influsso delle  attese suscitate dalla Rivoluzione d’Ottobre e dalle società “socialiste” e con la spinta delle rivendicazioni economiche sempre più organizzate dei lavoratori/trici europei, se da una parte produsse la reazione fascista e nazista (anch’essa comunque caratterizzata da un vistoso intervento statuale da capitalista collettivo) dall’altra ha portato, via via durante il Novecento, la quasi totalità degli Stati occidentali ad assumersi la gestione dell’istruzione di massa, dell’assistenza sanitaria universale e pressoché gratuita, delle pensioni di anzianità, vecchiaia, invalidità, di varie forme di reddito minimo garantito, dei sussidi di disoccupazione, della cassa integrazione e delle altre forme di welfare. Insomma, si può dire che l’ingigantirsi ad Est del ruolo dello Stato ha provocato nel corso del secolo Ventesimo una catena di fenomeni emulativi ad Ovest sia nei paesi a democrazia borghese sia in quelli nazifascisti: e l’intreccio della crescita del capitalismo di Stato e dello Stato sociale, nel ventennio tra le due guerre e ancor più nella ricostruzione post-bellica degli anni ’50 e negli anni ’60, ha portato con sé l’ingigantimento delle funzioni di un ceto/classe sociale sempre più esteso/a, analogo/a a quella borghesia di Stato dominante ad Est e descritta in precedenza.

In questo processo l’Italia è stata all’avanguardia. Il fascismo gettò le basi e realizzò il più esteso capitalismo di Stato dell’Ovest europeo, a partire dall’avvio dell’IRI6, che aveva il fine di eseguire e garantire la “riorganizzazione tecnica, economica e finanziaria delle attività industriali del paese”. Naturalmente l’IRI non intendeva essere un pezzo di socialismo nel fascismo, né contrapporsi al capitalismo privato e familiare italiano. Il compito prioritario assegnatogli fu di sviluppare e intensificare un processo di industrializzazione in grande stile che i privati non sapevano, non potevano, non volevano accollarsi, in un momento di grave crisi bancaria, finanziaria e industriale: e tale intervento del capitalista statuale determinò una svolta cruciale nel sistema, dimostrando la sua superiorità, di sicuro nelle fasi di crisi o di passaggio da un livello produttivo ad un altro, su quello individuale: superiorità confermata ai giorni nostri dalla vistosa crescita, nelle gerarchie economiche mondiali, di paesi come la Cina, l’India, il Brasile, il Sud Africa, la Corea del Sud, Singapore, tutti paesi caratterizzati da un forte intervento e controllo dello Stato in quanto gestore del capitale nazionale. In Italia l’interconnessione tra capitalismo di Stato e privato non solo sopravvisse alle disgrazie belliche del fascismo, ma venne inserito nella Costituzione repubblicana (articoli 41 e seguenti, che sanzionarono la coesistenza di proprietà “pubblica” e privata) e rilanciato dalla DC, tramite strutture economiche di grande rilievo come le Partecipazioni statali, l’ENI, la Cassa del Mezzogiorno, la Gepi, e con il sostanziale consenso dei partiti della sinistra comunista e socialista, fino a fare dell’Italia il paese europeo con il più massiccio intervento statale nell’economia e con l’edificazione del sistema di capitalismo misto (intreccio tra capitalismo di Stato e privato) “più complesso – parole di Giuseppe Glisenti, tra i massimi dirigenti dell’industria privata e di Stato – di tutto il mondo occidentale, a causa della molteplicità degli obiettivi assegnati all’intervento statale, che comprendono la ricostruzione e lo sviluppo dell’apparato industriale ma anche l’industrializzazione del Mezzogiorno, gli interventi anticongiunturali, l’acquisto di aziende private in via di chiusura, lo sviluppo di settori a tecnologia avanzata ed altri ancora”.

Un capitalismo misto che, nella sua complessità, risultò superiore al capitalismo privato nella promozione dello sviluppo economico e industriale italiano, come orgogliosamente rivendicava ancora nella seconda metà degli anni Ottanta l’ex-ministro democristiano Cirino Pomicino: “Negli anni ’50 e ’60 c’è stata in Italia la grande invenzione delle Partecipazioni Statali, che hanno fatto investimenti in settori nei quali i privati non si sarebbero mai avventurati, facendo crescere il Paese; e oggi sono le uniche multinazionali che riequilibrano le distorsioni del capitalismo privato…Gli industriali sono arrivati sempre secondi dinanzi a tutte le novità del Paese”.E tale primazia si esercitò non solo battendo costantemente il capitale privato in quanto a capacità di investimenti, programmazione e previsioni a lungo termine, ma anche soccorrendolo a più riprese in varie forme e dimensioni, come ricordava al capitalismo familiare italico “ingrato”, nel 1991, l’allora presidente dell’IRI Nobili: “L’intervento statale ha avuto un ruolo importante nello sviluppo del paese ed ha sicuramente offerto un valido contraltare al settore privato, che al settore pubblico è ricorso ampiamente per scaricare aziende decotte, per ottenere un sistema infrastrutturale adeguato, per riprendersi aziende risanate….E’ stato decisivo il ruolo dell’IRI e delle Partecipazioni Statali nella ricostruzione del dopoguerra, nell’industrializzazione del Mezzogiorno, nel sostegno anticongiunturale e di salvataggio industriale, nella formazione del capitale di rischio, nella creazione delle grandi reti di servizio, nello sviluppo dei settori a tecnologia avanzata, nella formazione per la nuova imprenditoria”.

Dunque in Italia, ancor più che in altri paesi europei, quel funzionariato dotato di grandi poteri che gestisce il capitale “pubblico” nazionale, e che analogamente a quello dell’Est definisco borghesia di Stato, convive da tempo con il capitale privato. Tale convivenza, nell’arco del Novecento e attualmente, è stata ed è sostanzialmente pacifica e complice: la borghesia privata e quella di Stato hanno avuto ed hanno interessi non dissimili, per quel che riguarda il legame con la crescita del capitale nazionale complessivo (che, però, per il capitalista privato è sempre sottomesso al prevalente interesse individuale e immediato), la penetrazione nel mercato mondiale e la protezione di quello nazionale dall’inserimento delle produzioni estere concorrenti, l’abbassamento del costo del lavoro, il controllo politico e sindacale sui lavoratori/trici e sui consumatori. Ma le centinaia di migliaia di politici, amministratori, gestori del capitale di Stato che occupano tutti i posti di comando e di controllo ramificati ovunque nella società italiana, e in quelle internazionali a capitalismo sviluppato, non sono, come teorizza tanta vulgata di sinistra, semplici portaborse, galoppini e cani da guardia del capitalismo privato. La borghesia di Stato – quella vasta classe (o potente e onnipresente ceto sociale, se si preferisce) che dirige le istituzioni politiche, i governi e gli Stati, i partiti dominanti, inamovibili anche quando mutano pelle e nomi, la burocrazia finanziaria e industriale di Stato, le strutture amministrative, giudiziarie, poliziesche, militari, la quasi totalità dei mass-media e i sindacati di Stato – in quasi tutti i paesi più sviluppati dell’Ovest, e ora anche nella maggioranza dei paesi emergenti del Sud del mondo, non può essere considerata come una acefala e pletorica burocrazia meramente al servizio del capitale privato. La sostituzione del funzionario al proprietario individuale nella gestione di tanta parte del Capitale e la non-indispensabilità della presenza del capitalista privato per il buon funzionamento dell’accumulazione e della riproduzione capitalistica furono per la verità già previste, oltre che dall’Engels già citato in precedenza, pure da Marx, anche se poi a tali previsioni non conseguirono elaborazioni significative sulle funzioni dello Stato come capitalista collettivo e dei suoi funzionari come gestori di quest’ultimo. Nel terzo libro del Capitale Marx scrisse ad esempio:

In seguito alla concentrazione dei mezzi di produzione e all’organizzazione sociale del lavoro, il modo capitalistico di produzione sopprime, sia pure in forme contrastanti, la proprietà individuale e il lavoro privato…Con lo sviluppo del credito lo stesso capitale monetario assume un carattere sociale, si concentra nelle banche e da queste, e non più dai suoi proprietari immediati, viene dato a prestito…e poiché d’altro lato il semplice dirigente, che non possiede il capitale, esercita tutte le funzioni effettive che spettano al capitalista operante, rimane unicamente il funzionario e il capitalista scompare dal processo di produzione come personaggio superfluo7.

Anche ad Ovest i funzionari del Capitale hanno accresciuto la loro influenza e il loro potere negli ultimi decenni e ancor più da quando la crisi economica nell’Occidente ha messo a nudo le debolezze, la fragilità, l’avventurismo e l’”anarchia” del capitalismo finanziario privato, individuale, familiare: non a caso, i paesi che hanno finora attraversato la crisi, iniziata tra il 2007 e il 2008, relativamente indenni, o addirittura vedendo crescere vistosamente il loro ruolo mondiale (Cina e India, in primis), sono a forte presenza (o egemonia) di un capitalismo di Stato che riduce significativamente il ruolo e la centralità del capitalismo individuale e familiare, aumentando quella dei funzionari del Capitale. Insomma, non stiamo parlando di “servi dei padroni” ma casomai di un vastissimo personale al servizio del Capitale, un’ampia classe (o ceto preminente all’interno della neo-classe capitalista) proprietaria in forma collettiva, dilagante nello Stato, nelle industrie e strutture economiche statalizzate o a capitale misto, nelle banche nazionali, nei mass-media più o meno statalizzati, nei ministeri e nelle istituzioni locali: che gestisce imprese e servizi che producono profitto e che decide la distribuzione di prodotto e ricchezza collettiva, nonché l’impiego e gli investimenti per gran parte del capitale di Stato. E a far da collante a questo funzionariato del capitale nazionale è, in Italia ed altrove, una casta politica onnipresente, ceto della borghesia di Stato autonomo dall’insieme dei cittadini/e incaricati solo di votarli periodicamente.

Le crescenti funzioni di gestione del capitale e della ricchezza nazionale, nonché di controllo economico, sociale, politico e poliziesco – che nell’Ottocento e per gran parte del Novecento erano riservate ad un personale relativamente ristretto – coinvolgono ora fasce assai più consistenti di persone. Per quel che riguarda l’Italia, dopo i timori provocati nella infingarda borghesia nazionale dai movimenti del cosiddetto “decennio rosso” (1968-1977), vasti strati sociali sono stati promossi ai poteri e ai privilegi di una espansa borghesia di Stato che è andata ad occupare, con centinaia di migliaia di persone, ogni luogo di gestione del capitale nazionale, della ricchezza “pubblica” e delle istituzioni statali e parastatali, nonché ogni centro di controllo su ceti e classi subalterne. Questi funzionari del capitale nazionale, esattamente come il prototipo dell’Est, non godono di forme giuridiche di proprietà individuale sulla ricchezza pubblica, ma mediante l’architettura istituzionale – fondata sui pilastri delle aziende e delle banche di Stato, dei ministeri erogatori e organizzatori di servizi pubblici, dei governi fondati su partiti omologati e oligarchicamente proprietari della gestione politica, affiancati da sindacati di Stato monopolistici – posseggono di fatto il capitale nazionale avendo il pieno potere di decidere l’impiego e la distribuzione (a chi, come, in che quantità) della ricchezza prodotta. E in Italia, malgrado le privatizzazioni degli ultimi anni (che in gran parte hanno prodotto una ridistribuzione della ricchezza nazionale sempre all’interno della medesima razza padrona, di Stato e privata), quello che tempo fa Romano Prodi definì il capitalismo senza padroni, di marca statale, possiede ancora gran parte dell’apparato produttivo che conta, una enorme quota del capitale finanziario, oltre la metà dei mezzi di informazione, la quasi totalità dei servizi pubblici e della gestione dei Beni comuni e controlla i meccanismi-base del credito e della riproduzione delle forze-lavoro.

Tra questi funzionari del capitale nazionale e quelli degli ex-paesi “socialisti” potrebbe apparire una differenza significativa: quella di aver avuto ad Est nel Partito Unico “del proletariato”, nel Partito-Stato monopolista del potere nazionale, qualcosa di radicalmente diverso dalle forme partitiche  e dalle democrazie parlamentari dell’Occidente. Ma se osserviamo con attenzione l’involuzione dei sistemi politici parlamentari ed istituzionali della democrazia borghese e liberale in Europa e in particolare in Italia nell’ultimo trentennio potremo notare come le differenze siano andate attenuandosi e comunque non costituiscano più un vero salto di qualità nella gestione del capitale nazionale e di Stato. In apparenza parrebbe che tra il monopartitismo dei paesi “socialisti” e il pluralismo politico dei paesi occidentali ci sia uno iato invalicabile. Ma sono oramai lampanti le profonde trasformazioni indotte anche in Europa dal bipolarismo (o bipartitismo di fatto) modellato sullo stampo statunitense. Così come nel paese-guida del capitalismo occidentale la differenza tra i due partiti che hanno reale cittadinanza politico-istituzionale, il Partito Democratico e quello Repubblicano, non è mai stata maggiore di quanto ce ne fu ad esempio dopo il 1953 in Urss8 tra le varie correnti del PCUS, via via anche nei paesi europei a pluripartitismo istituzionale l’imposizione di leggi elettorali fortemente maggioritarie, e dunque bipolari, ha progressivamente spazzato via dalle istituzioni un effettivo pluralismo, creando qualcosa non solo di assai vicino al bipartitismo tra simili del modello Usa ma anche alle correnti dei Partiti-Stato degli ex-paesi “socialisti”.

Così come negli Stati Uniti chiunque voglia fuoriuscire, in funzione antagonista ed alternativa, dalla finzione del bipartitismo tra simili (Coca Cola contro Pepsi Cola, ne è la metafora più calzante) non ha strumenti concreti per poter entrare con un ruolo di qualche rilievo nella competizione elettorale (costi proibitivi, mass media ostili, pressione politica ed ideologica che disegna gli outsider come bizzarria o provocazione verso la politica “seria” o addirittura come cavallo di Troia di uno dei due partiti dominanti e concorrenti), anche in Italia e in altri paesi dell’Ovest, convertiti ad un maggioritario soffocante e senza alternative – che è lo strumento di omogeneizzazione totale dei funzionari del Capitale e di espulsione o marginalizzazione di chi rifiuta tale ruolo -, le similitudini con il monopartitismo di fatto statunitense o ex-sovietico diventano sempre più forti. Il ceto politico, classe di funzionari che gestisce il capitale di Stato, diviene sempre più omologato e interscambiabile: e il traffico senza precedenti di deputati da uno schieramento parlamentare all’altro e da un partito all’altro, che tanto è sembrato scandalizzare i mass-media e una parte dell’opinione pubblica italiana negli ultimi anni, altro non è che la conseguenza della  omogeneizzazione della funzione politico-istituzionale al servizio del capitale nazionale “pubblico”.

E analoga risulta la situazione della nomenclatura di Stato, quell’insieme di funzionari insediato nei ministeri, nelle direzioni delle aziende, banche, amministrazioni varie, nazionali e locali, mass media, che è il tessuto connettivo di gestione della ricchezza nazionale “pubblica”. L’80-90% di tale personale è perfettamente intercambiabile, non è influenzato dai cambi di governo o di schieramento politico che prevalgono in questa o quella località italiana o a livello nazionale. A garantire la continuità delle strutture  restano sempre gli stessi, con poche aggiunte o sottrazioni a seconda dei mutevoli risultati elettorali: ma alla fin fine la stabilità di questo personale è persino maggiore di quella che si può vedere nei Consigli di amministrazione delle aziende a capitale privato e persino rispetto agli azionisti proprietari di tali aziende.

La politicizzazione del sociale e la cooptazione delle “sinistre” nella borghesia di Stato 

Una delle risposte più profonde che il potere politico italiano ha dato alla rivolta del 1968 e del decennio rosso è paradossalmente consistita, proprio mentre sembrava che quel movimento avesse messo in crisi la politica politicante, nell’ampliamento vistoso delle funzioni della gestione politica e nella sua infiltrazione in tutti i pori della società, estendendo il controllo sociale diffuso mediante il coinvolgimento di centinaia di migliaia di persone in più rispetto agli anni pre-’68. A partire dagli anni’70 del secolo scorso nuovi e articolati strumenti di integrazione, cooptazione e controllo sono stati creati a livello nazionale ma soprattutto locale (nelle Regioni, Province, Comuni e circoscrizioni).  Vasti strati sociali politicizzati, più o meno coinvolti nei movimenti e nelle lotte di quegli anni, sono stati assorbiti e promossi con gradazioni diverse a funzionari del capitale di Stato, ai poteri e ai privilegi della una sempre più ampia, famelica, corrotta e qualitativamente mediocre, borghesia di Stato, che ha così allargato il suo controllo sulla società e sulla ricchezza nazionale. Canali privilegiati di questa complessa ed onnicomprensiva operazione di politicizzazione del sociale, estendente le sue reti di controllo addirittura fino all’antagonismo sociale diffuso, sono stati i partiti e i sindacati di derivazione comunista e socialista, elevati progressivamente al rango di partiti e sindacati di Stato, abilitati alla gestione del capitale “pubblico” dal livello locale e territoriale, dove pure avevano avuto un simile ruolo gestionale fin dagli anni ’50 (in maniera addirittura egemone nelle Regioni “rosse”), fino a quello nazionale e di governo complessivo.

Oggi, a posteriori, si comprende meglio la singolare stranezza teorica di una sinistra marxista che, nella seconda parte del secolo scorso, non trovò mai il tempo e la voglia di dedicare la giusta attenzione analitica alla sempre più ampia classe di funzionari-gestori del capitale nazionale “pubblico”, al ruolo strutturale dei partiti e sindacati finanziati dallo Stato, alle trasformazioni dei quadri politici e sindacali di “sinistra” da militanti volontari e non retribuiti, quale erano in origine, a professionisti del controllo politico e sindacale sempre meglio retribuiti e sempre più dotati di poteri di controllo e di gestione di parti importanti della società e della ricchezza nazionale. A suo tempo fu poco notata e sottolineata, in particolare, la “distrazione”di tanta intellettualità di estrazione marxista, decisamente esperta nel sottoporre ad analisi strutturale classi e ceti sociali, che però si rivelò sempre assai riluttante ad applicare tali griglie di lettura e interpretazione nei riguardi dei ceti sociali succitati. Soprattutto nei confronti delle forze politiche e sindacali di“sinistra” (PCI, PSI, Cgil, innanzitutto) ci si limitò quasi sempre, sul piano dell’analisi, a registrare cosa tali forze pensavano, scrivevano e dicevano del mondo e di se stesse, valutandone le linee politiche e strategiche e le teorie esposte, magari anche criticandole, ma quasi mai sviscerando l’intreccio di interessi materiali concreti e la collocazione sociale ed economica effettiva del personale dei partiti e dei sindacati di “sinistra”. Cosicché la critica, pur quando raggiunse toni aspri per quelli che apparivano cedimenti teorici e ideologici, non ebbe quasi mai connotati davvero marxiani: non divenne cioè critica strutturale, di funzioni sociali, di ruoli di gestione del potere effettivo nella società, non limitandosi alle deviazioni rispetto alla “giusta linea” politica e restando sempre nei limiti di una tirata d’orecchi, per quanto dura, a presunti compagni che sbagliavano.

Né in questo fondamentale disvelamento se la cavò meglio la sinistra anticapitalista del “decennio rosso”. Nonostante il radicalismo formale e le dure polemiche politiche con l’allora PCI e con la Cgil, la carenza (o assenza) di un’analisi organica sulla collocazione sociale del personale politico e sindacale di estrazione comunista e socialista all’interno della gestione complessiva del capitale “pubblico” nazionale, ha finito per assegnarle – in un giudizio storico complessivo a posteriori – un connotato generale da mosca cocchiera che pungolava il ronzino socialdemocratico e “moderato”9 per portarlo sulla retta via, ma non in una prospettiva davvero autonoma dalle degenerazioni del “socialismo reale” e dalle pratiche di co-gestione capitalista delle sinistre di Stato.

D’altra parte abbiamo avuto anche negli ultimi anni ripetute dimostrazioni, da parte di numerose forze della cosiddetta sinistra radicale10, di tale riluttanza ad andare a fondo nella denuncia del pieno coinvolgimento delle “sinistre” eredi del PCI e del PSI nella co-gestione del capitale nazionale di Stato e nel fervido sostegno a quello privato-familiare, malgrado queste ultime (e i loro governi di centrosinistra in particolare) abbiano contribuito a imporre ai salariati, ai settori popolari e agli strati sociali più deboli del paese gran parte delle nefandezze e delle culture che oggi rendono così lampante l’impotenza politica e sociale di tali settori: dalle drastiche riduzioni salariali alla precarizzazione dilagante; dall’aggressione alla scuola e alla sanità pubbliche alle privatizzazioni e mercificazioni di importanti Beni comuni; dalla ripetuta partecipazione alle guerre al costante aumento delle spese militari e delle basi belliche; dalla riduzione delle pensioni fino alla soffocante riduzione delle libertà di sciopero e di organizzazione sindacale indipendente.

Il tutto grazie anche alla imposizione di un bipolarismo istituzionale coatto che, tramite il maggioritario elettorale, ha accelerato l’omogeneizzazione del ceto politico, togliendo ogni spazio a livello istituzionale alle voci davvero fuori dal coro e anti-Sistema Ciò malgrado, l’area della sinistra radicale istituzionale (ieri PRC, PdCI e Verdi; oggi FdS, SeL e Verdi) continua a considerare il social-liberismo alla PD come una forza moderata a cui, con pazienza e costanza, si può re-insegnare la strada giusta. Comunque essa non ha mai voluto mettere tra sé e i partiti e sindacati social-liberisti la stessa distanza politica e culturale che ha posto nei confronti della destra berlusconiana, dimostrando non solo la propria subordinazione a tale sinistra di Sistema, ma anche la sua dipendenza cronica dalla presenza istituzionale, che l’ha portata a cercare, senza successo, di restare disperatamente agganciata al carro della sinistra liberista, seguendola in tutte le sue involuzioni dell’ultimo trentennio, fino alla catastrofe del secondo governo Prodi (dopo aver partecipato anche al primo), in cui è stata pesantemente coinvolta in numerose scelte antipopolari. Ed ancora adesso, malgrado alcune autocritiche di facciata, è di nuovo intenta a ricercare quella mitica unità delle sinistre foriera di altri disastri, nonostante poi si esibisca in ripetute denunce verbali contro il sostegno convinto al liberismo che la parte dominante di tale “sinistra” esibisce quotidianamente e irreversibilmente.

Di certo tale apparente cecità non può essere addebitata alla ingenuità sessantottesca che portò quella rivolta di massa, per il resto assai feconda, a valutare partiti e sindacati di “sinistra” in base alle linee politiche da essi enunciate, alle false coscienze esibite dalle decine di migliaia di politici e sindacalisti di professione, che progressivamente (ma con velocità supersonica dopo il crollo del “socialismo reale” e la fine delle ultime remore a passare nel campo avverso) accettavano l’offerta di trasmigrare a pieno titolo nei ruoli dell’oramai onnipresente funzionariato del capitale di Stato  che offriva la conduzione di aziende pubbliche e banche, RAI e giornali, consigli di amministrazione, strutture dirigenti di ospedali e municipalizzate, e della miriade di enti pubblici che da decenni gestiscono, e quasi sempre sperperano, quote crescenti di ricchezza nazionale. Ossia, non furono (né tantomeno oggi sono) le linee politicherevisioniste”, riformiste o moderate a mutare la natura sociale del PCI (e poi, a seguire, del PDS, DS e PD), del PSI e della Cgil, bensì accadde il contrario: il mutare della collocazione di classe – accelerato prima dalla sconfitta epocale degli operai e dei settori popolari alla fine degli anni’70, e poi, in maniera vertiginosa, dal crollo dell’Urss e del suo Sistema – delle decine di migliaia di amministratori, politici e sindacalisti di mestiere, la loro cooptazione nella borghesia di Stato, hanno prodotto i cambiamenti di linea, di riferimenti ideologici e culturali, l’abbandono prima di ogni prospettiva anti-capitalista e di vera opposizione all’esistente, fino all’accettazione piena del sistema liberista.

Non si può capire il trionfo, in Europa e in Italia, del liberismo e delle culture reazionarie, razziste, xenofobe, nonché il tracollo dei diritti e delle condizioni di vita e di lavoro dei salariati e dei settori popolari se non facendo anche riferimento alla colossale trasmigrazione del ceto politico e sindacale “di sinistra”, avvenuto con particolare rapidità dopo la caduta del Muro di Berlino e la disgregazione dei paesi “socialisti”. Quell’epocale cambio di campo, che ha coinvolto in tutta Europa milioni (e in Italia centinaia di migliaia) di quadri politici, istituzionali, sindacali, ha lasciato i lavoratori/trici e i settori più deboli della società, che erano organizzati nei partiti e nei sindacati trasmigrati, in completa balia degli avversari padronali. La nuova ideologia social-liberista, sfornata dai gruppi dirigenti ex-comunisti o ex-socialisti, ha abbracciato con il massimo di fervore la nuova causa padronale, dandosi come incarico quello di convertire a tale causa innanzitutto le proprie basi popolari: e lo ha fatto partendo dalla demolizione del proprio passato, della propria storia, del conflitto come motore del cambiamento.

In Italia l’incredibile, irresistibile ascesa di Berlusconi e del suo sconcio personale politico, l’affermazione di un’organizzazione fascistoide, razzista e xenofoba come la Lega, il trionfo di una sub-cultura iper-individualista, rampante, aggressiva, volgare e immemore, la progressiva cancellazione di ogni traccia di solidarietà, giustizia sociale, egualitarismo nell’ideologia dominante, apparirebbero inspiegabili – tanto più facendo il confronto con il trend opposto degli anni ’60 e ’70 del secolo passato – senza considerare l’enorme lavoro di distruzione delle proprie radici conflittuali effettuato per almeno un ventennio dal personale politico, sindacale e culturale social-liberista trasmigrato. Il progressivo smantellamento dell’intero apparato ideologico e culturale, che aveva bene o male tenuto insieme la sinistra politica, sindacale e istituzionale negli anni’ 50 e ’60 del Novecento, ha dato un contributo decisivo a cancellare il bagaglio di lotte, di obiettivi, di desideri e di speranze che aveva accompagnato in Italia i difficili anni (i Cinquanta) di ricostruzione post-bellica e il successivo e molto promettente ventennio (i Sessanta e i Settanta) di espansione dei diritti sociali e politici e di elevamento materiale e culturale dei settori popolari e salariati: creando così una tabula rasa che, a partire dal governo Craxi e dall’egemonia sulla sinistra del socialismo craxiano durante gli anni Ottanta11, ha prodotto, attraverso una alternanza nell’ultimo ventennio di governi di centrosinistra e centrodestra solo apparentemente conflittuali (di fatto l’unico vero conflitto ha riguardato il ruolo e la figura di quella sbalorditiva anomalia mondiale che è Silvio Berlusconi), il pieno successo del liberismo e la resa dei settori salariati e subordinati della società. Non c’è tema e non c’è passo del cammino antipopolare degli ultimi venti anni che non siano legati al lavoro parallelo e convergente dei due campi del bipolarismo, al di là del teatrino dello scontro mediatico tra destra e sinistra, con un alternarsi al governo e alle responsabilità di direzione istituzionale pressoché paritario12.

Il social-liberismo contro la conflittualità sociale

Non c’è stata nell’ultimo trentennio in Europa e in Italia ideologia più invasiva, onnipresente e appiccicosa di quella che ha teorizzato la fine delle ideologie e della lotta tra classi e ceti sociali o addirittura l’esaurimento delle ragioni del conflitto sociale tout court. Se tali chimere sono state sempre appannaggio delle classi dominanti, comprensibilmente protese verso la cancellazione ideologica dei motivi dello scontro sociale per occultare il proprio dominio, la novità dell’ultimo trentennio è stata il fatto che tanta parte dell’ex-sinistra marxista, post-socialista e post-comunista, una volta giunta nelle camere del potere economico e politico, si è impegnata tenacemente, a partire dalla micidiale esperienza britannica del New Labour di Tony Blair, nella medesima opera di occultamento dei conflitti sociali e dei motivi che li determinano. In particolare in Italia, durante la trasmigrazione teorica e politica dell’ex-PCI nel campo del liberismo vincente, la nuova impostazione ideologica ha cercato di cancellare l’esistenza stessa di classi e ceti conflittuali, nell’ambito di una presunta e potenzialmente omogenea comunità nazionale. La prima invasiva operazione teorica del social-liberismo, da cui poi sono a cascata scaturite le altre dismissioni di tesi storiche di sinistra, è stata appunto quella di negare che all’interno della “comunità” nazionale ci fossero radicali divisioni sociali ed economiche, inevitabilmente foriere di conflitto. Dal “desiderio di un Paese normale” di D’Alema all’appello vibrante “al Paese che intraprende, che ha talento e che fatica, al Paese delle persone perbene che sono tali indipendentemente dalle loro opinioni e sensibilità culturali, civili e politiche e che vorrebbero solamente avere un Paese dinamico” di Veltroni, fino al “siamo un Partito patriottico”del segretario PD Bersani durante le celebrazioni per il 150° anniversario dell’unità d’Italia, gli eredi del PCI, coerentemente con la propria cooptazione nella borghesia di Stato, hanno ripetutamente auspicato una comunità nazionale coesa, con padroni e salariati nella stessa barca, impegnati a remare come un sol uomo verso il traguardo di un Paese capitalisticamente normale, dinamico e vittorioso nella competizione internazionale.

L’effetto distruttivo di questa negazione/ripudio del conflitto è stato amplificato da due fattori, operanti uno soprattutto in Italia, l’altro a livello almeno europeo. La prima amplificazione è dipesa dal massiccio supporto fornito a tale ideologia dalla presenza di forti sindacati nazionali profondamente legati ai partiti fin dal dopoguerra, e successivamente alle strutture statali, a cui è stato garantito il monopolio dei diritti sindacali e di rappresentanza e da cui, in gran parte, i lavoratori/trici hanno finito per dipendere fortemente in tutta la seconda parte del secolo scorso. Se l’idea del conflitto sociale non è mai stata forte nella Cisl (in quanto sindacato cattolico legato alla DC finché questa è esistita) e nella Uil (dipendente dai settori moderati del Partito Socialista fino alla “caduta” di Craxi), l’impostazione marxista e social-comunista della Cgil, invece, ne aveva fatto fino agli anni ‘70 il punto di riferimento conflittuale della maggioranza dei lavoratori/trici. Ma la cooptazione del personale politico nel ceto/classe dei gestori del capitale “pubblico” ha avuto nell’ultimo trentennio un corrispettivo massiccio anche nel personale sindacale Cgil. La struttura professionale di cui sempre più massicciamente, in particolare nel processo di cooptazione seguito al “decennio rosso”, la Cgil e gli altri sindacati confederali si sono dotati, costituita da decine di migliaia di persone pagate per occuparsi, di mestiere, dei destini di altri lavoratori dipendenti – una casta di funzionari, che assai spesso neanche provengono dalle categorie che dovrebbero rappresentare, sradicati dal loro posto di lavoro e dalla loro identità sociale – ha inciso fortemente nelle trasformazioni ideologiche, culturali, politiche e sindacali dei lavoratori/trici che a questo personale da decenni facevano riferimento. Il contemporaneo aumento dei privilegi, poteri e remunerazioni (soprattutto quelle non ufficiali) ottenuto da tale personale mediante l’ingresso in una vasta serie di istituzioni di gestione e controllo statale, nonché con porte aperte per trasferirsi nell’ancora più remunerativo ceto dei politici istituzionali, lo ha via via trasformato in un vero e proprio sindacalismo di Stato, simile a quello dei paesi ex-“socialisti”, che ha dato un contributo rilevantissimo all’opera dissolutoria della idea stessa di conflitto sociale.

Anche perché questa trasmigrazione a sostegno del capitale nazionale e della non-conflittualità all’interno della “comunità nazionale” non è avvenuta lasciando spazi liberi ad un sindacalismo conflittuale e anti-liberista. La sussunzione dei confederali in un sindacalismo di Stato partecipe degli interessi del capitale “pubblico” e privato ha avuto come corrispettivo e garanzia la cancellazione di gran parte dei diritti sindacali per tutti coloro che da tale inglobamento restavano fuori. E’ davvero stupefacente rilevare come sia drasticamente cambiato il panorama sindacale – addirittura lo stesso concetto di sindacato – e quello delle libertà di organizzazione, trattativa e sciopero nei posti di lavoro e a livello nazionale, dopo l’entrata in scena a partire dal 1987 dei Cobas e del sindacalismo di base/conflittuale come esperienze stabilmente organizzate a livello nazionale e intercategoriale. Fino a quella fatidica data (che coincise appunto con la nascita nella scuola dei Cobas, originalissima nuova forma sindacal-politica, che provocò e accompagnò il più poderoso movimento di massa di lavoratori/trici della scuola pubblica mai comparso sulla scena italiana) Cgil, Cisl e Uil, che godevano del sostegno dei tre partiti italiani più forti e strutturati, nonché di una posizione di assoluto monopolio della contrattazione e della rappresentanza dei lavoratori/trici, non avevano mai accettato alcuna forma di regolamentazione o controllo sulla propria attività e men che meno sul diritto di sciopero. Le organizzazioni sindacali dominanti, fino al 1987, avevano elevato a loro bandiera e loro scudo, non tanto per amore di democrazia quanto a fini di intoccabilità del proprio  potere, la prima parte dell’art.39 della Costituzione, quella che recita: “L’organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. E’ condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica. I sindacati registrati hanno personalità giuridica”.

In base all’assenza di qualsivoglia altro obbligo giuridico, i sindacati egemoni hanno potuto per decenni regolare ad esempio i rapporti di lavoro interni – elemento secondario fin tanto che si trattava prevalentemente di organizzazioni volontarie di militanti ma assolutamente rilevante una volta costituitesi in struttura professionale con decine di migliaia di lavoratori/trici dipendenti dalle retribuzioni e dalle norme lavorative interne al sindacato di appartenenza – nella più assoluta oscurità e aleatorietà. Ciò che si richiedeva per i “normali” lavoratori salariati, poteva tranquillamente essere ignorato per i dipendenti sindacali, per i quali il rispetto di norme, orari, regole contrattuali era (ed è) del tutto facoltativo e mutevole. Nessun obbligo per i sindacati monopolisti neanche di rendiconti finanziari, bilanci pubblici e controllati, giustificazione a norma – e a rischio – di legge di entrate e uscite, finanziamenti di qualsiasi provenienza e forma, spese nelle più svariate operazioni o direzioni. Ma soprattutto monopolio assoluto e garantito, da tutto l’arco partitico-parlamentare, sulla seconda parte dell’art.39, quello che in molti, fino a trenta anni fa, avrebbero voluto discutere per capirne l’applicazione concreta, ricevendo però in cambio dinieghi assoluti ed accuse di “fascismo antisindacale”; seconda parte in cui i padri costituenti scrissero: “I sindacati registrati possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”.

Nessuna legge, fino all’avvento dei Cobas, aveva mai chiarito come andasse concretamente realizzata quella “rappresentanza unitaria in proporzione ai loro iscritti” e fino a che punto ci si potesse arrogare il diritto di “stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria” per tutti i lavoratori/trici delle categorie corrispettive ai contratti. Tali vuoti legislativi sono serviti per decenni a garantire alla Triplice sindacale (Cgil, Cisl, Uil) la totale egemonia della rappresentanza, seppur con qualche incursione categoriale di questo o quel sindacato autonomo, quasi tutti per lo più inquadrati in una rassicurante cornice politica democristiana. Ma l’irruzione di un movimento di lavoratori/trici anomalo come quello dei Cobas, caratterizzato dal rifiuto del sindacalismo di mestiere e dalla bandiera dell’autorganizzazione – intesa come possibilità di esercitare in proprio la difesa e il miglioramento della propria condizione lavorativa e sociale, senza che tale difesa divenisse una professione con il conseguente distacco dal lavoro – mise in crisi uno schema collaudato da decenni. Per giunta i Cobas, aggiornando e perfezionando anche forme di sindacalismo rivoluzionario e libertario ottocentesco, teorizzavano la fine della separazione novecentesca tra le funzioni sindacali – tutte compatibili con il sistema e conseguentemente collaborative e subordinate ai poteri pubblici e privati – e quelle politiche, affidate a partiti parlamentari sempre più integrati nella gestione del capitale “pubblico”; e pretendevano, come fanno tuttora, di intervenire in qualsiasi ambito del conflitto sociale, senza deleghe a padrinaggi politici e anzi rifiutando lo stesso modello del Partito come gestore professionista e sintesi esclusiva dei vari conflitti sociali a livello istituzionale.

Il rapido dilagare anche in altre categorie rilevanti del Pubblico impiego e dei trasporti, e poi nel lavoro privato, del modello Cobas e delle sue radicali forme di lotta e di sciopero mutarono in pochi mesi l’intera impostazione della rappresentanza e delle libertà sindacali, ma soprattutto le modalità stesse del conflitto lavorativo, a partire dal diritto di sciopero. L’art.40 della Costituzione è  dedicato a tale diritto, ma si tratta di sole due righe, lapidarie: “Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano”. Tali leggi, nonostante fossero richieste fin dal dopoguerra soprattutto da varie forze del padronato privato, non erano mai arrivate ad avere alcuna legittimità istituzionale fino al 1990: e a chi periodicamente le invocava, Cgil, Cisl e Uil avevano sempre risposto all’unisono che mai avrebbero permesso limitazioni a tale diritto. Ma l’ingresso in campo improvviso e inaspettato dei Cobas – e del sindacalismo di base/conflittuale che ne seguì rapidamente le orme lasciando capire che non di un breve fuoco di paglia si trattava – fece mutare, e con una rapidità inusitata, l’orientamento della Triplice sindacale, che  mise al lavoro i suoi esperti (soprattutto Cgil, con in testa Gino Giugni13 che dette il suo nome alla legge, anche se essa venne definita dai mezzi di informazione legge anti-COBAS e giuridicamente legge 146/90), producendo con la massima tempestività la legge anti-sciopero che ne riduceva drasticamente il diritto nel pubblico impiego e nei servizi (soprattutto nei settori “caldi” della scuola, della sanità e dei trasporti), togliendo dunque la materia prima della lotta al nuovo sindacalismo conflittuale, che ne stava facendo uso per accrescere vistosamente la propria influenza, cercando di scalzare via via i sindacati ufficiali, sempre più concertativi e collaborazionisti.

A seguire poi, arrivarono norme sempre più restrittive e vincolanti, per impedire non solo lo sciopero ma anche la possibilità di partecipare alle trattative, di avere permessi o distacchi dal lavoro (quantunque quest’ultimo diritto non sia stato mai richiesto dai Cobas) e soprattutto di poter svolgere assemblee durante l’orario di lavoro, diritto quest’ultimo sempre appartenuto ai singoli lavoratori nel Pubblico Impiego ove le dieci ore annue contrattuali sarebbero nominative e dunque utilizzabili indipendentemente dalla presenza o meno di questo o quel sindacato. Il brutale tentativo di eliminare i Cobas e in genere la nuova “concorrenza”,  impedendole di avere pieni poteri di rappresentanza e contrattazione e tentando di spingerla forzosamente in un ruolo di pura testimonianza anche nei numerosi momenti in cui è stata alla guida di una ampia e radicale conflittualità, ha consentito ai sindacati monopolistici una doppia operazione altrimenti impossibile: a) lo spostamento progressivo dalla conflittualità alla concertazione e poi  alla piena collaborazione con i poteri del capitale “pubblico” e privato, ripagata con l’inserimento in tutte le strutture gestionali e istituzionali possibili e con l’affidamento di gran parte dell’assistenzialismo per i lavoratori/trici, annullando di fatto la dipendenza di tali sindacati dai finanziamenti diretti da parte dei lavoratori/trici iscritti; b) il mantenimento, ciò malgrado, di un controllo su milioni di lavoratori che – non avendo i Cobas e i “conflittuali” i pieni diritti di trattativa e di rappresentanza e mantenendo i sindacati più potenti la gestione delle pratiche clientelari/assistenziali – sono comunque rimasti vincolati ad essi. Ma tutto ciò ha portato alla progressiva scomparsa per milioni di lavoratori/trici di un orizzonte di effettivo cambiamento e miglioramento della propria condizione e alla rinuncia di una vera conflittualità nei confronti del potere economico e politico.

La lotta tra penultimi e ultimi

Le ragioni segnalate finora per spiegare il vistoso arretramento dei conflitti del lavoro e dei livelli di difesa e di garanzia per i salariati e i settori popolari – in Italia e in gran parte d’Europa – sono state prevalentemente imperniate sulle scelte soggettive, politiche e sindacali, fatte soprattutto nell’ultimo ventennio dalla grande maggioranza delle forze di provenienza novecentesca comunista o socialista. Alla base di esso, però, ci sono anche profonde motivazioni di tipo strutturale, legate al grande smottamento avvenuto nelle economie capitalistiche europee che, ancora una decina di anni fa, sembravano poter giungere ad una integrazione continentale in grado di rendere l’Europa una potenza unita, economicamente e politicamente, al punto da superare anche il dominio degli USA e lasciare a debita distanza le nuove economie emergenti e gli Stati affacciatisi di recente alla competizione capitalistica mondiale. Elemento rilevante nell’ultimo quinquennio è stato proprio il blocco di questa prospettiva pan-europea e la ri-chiusura nell’ambito nazionale degli orizzonti delle classi e dei ceti sociali e della politica istituzionale. Il venir meno dell’obiettivo di una reale unificazione politica, economica e sociale, dopo quella fittizia della moneta unica, con istituzioni europee dotate di poteri decisionali primari; l’irrompere nella gara conflittuale tra le potenze capitalistiche di nuove forze, rampanti e aggressive, in grado di ridurre gli spazi al dominio del capitale euro-americano; i processi di de-localizzazione produttiva ad Est e a Sud e di dumping sociale, operato malgré soi dalla dilagante migrazione umana nell’Occidente; la debolezza strutturale di molti capitalismi privati europei, e di quello italiano in particolare, una volta ridottosi il sostegno del capitale di Stato e la possibilità di spoliazione dei paesi del Terzo Mondo: tutti questi potenti elementi trasformativi, frullati in una  traumatica crisi economica e finanziaria, hanno favorito enormemente l’affermarsi del concetto di comunità nazionale come entità inter-classista e a-conflittuale di milioni di individui messi a remare sulla stessa barca dei capitalismi del proprio Paese nel tempestoso mare della feroce concorrenza internazionale, con l’unica bussola di un universale mors tua vita mea per uscire dalla crisi a scapito dei “competitori” delle altre nazioni.

A partire dall’esplodere della crisi negli USA e in Europa nel 2007-2008, e in progressiva accelerazione al momento del tracollo economico della Grecia e sull’onda di quelli sempre incombenti degli altri paesi PIIGS14, con l’Italia nella prima linea a rischio, il leit-motiv comune e bipartisan di Confindustria e governi (Berlusconi prima e Monti poi), centrodestra, centrosinistra e sindacati confederali (malgrado le polemiche e i battibecchi a puro fine di egemonia tra Cisl-Uil e Cgil, e nonostante l’antiberlusconismo del PD fino all’arrivo di Monti) è stato quello della coesione nazionale, della difesa del sistema Italia, del pieno coinvolgimento collettivo – escludente dunque conflittualità sociale, politica e sindacale – nella difesa e rilancio del capitalismo nazionale, “pubblico” e privato, come unica arma per sopravvivere nello scontro mondiale tra capitali e potenze statuali esploso fragorosamente dopo l’esplicitarsi della crisi in Occidente.

I poteri economici, politici e mediatici, di Stato e privati, hanno lavorato convergentemente per far prevalere a livello popolare quella che definirei sindrome da Impero Romano in decadenza. Se osserviamo con attenzione l’impressionante dilagare in Europa di partiti nazi-fascisti, razzisti, xenofobi e reazionari – che oramai la infestano tutta, dall’ex-civilissimo Nord Europa scandinavo, passando per un centro-Europa sempre più “bruno” e un Est dove il tradizionale antisemitismo è stato riciclato in chiave anti-immigrati, fino ai paesi mediterranei che, con l’Italia leghista e la Francia di Le Pen, non sono secondi a nessuno – possiamo vedere che alla radice di tale devastazione c’è proprio una sindrome del genere. E cioè la diffusa convinzione che ci sia una comunanza di interessi tra patrizi e plebei di ogni nazione nella spietata concorrenza internazionale e nella difesa di alcuni permanenti benefici da civis romanus, ostile alla pressione di chi spinge alle porte dell’Occidente per entrare a godere di alcuni di essi: quei “barbari” migranti che dal Sud e dall’Est premono su una Europa che si vive sempre più come fortezza assediata non già, come nel precedente storico dell’Impero romano, da forze aliene che intendono distruggerla ma di masse di diseredati che vogliono reclamarvi la propria parte di ricchezza e di beni sociali.

Mentre il padronato usava l’ideologia razzista e xenofoba per minimizzare i diritti dei migranti e poterli usare anche per abbassare i diritti degli stanziali, in questi due ultimi decenni settori consistenti di ceti popolari hanno sovente costituito la base di massa di forze politiche reazionarie, divenendo parte attiva di una spietata lotta tra penultimi e ultimi della società e cercando di espellere i loro omologhi del Sud del mondo e dell’Est europeo, nel timore di essere da questi ultimi scavalcati nella scala sociale e precipitati nei posti più infimi di essa. Il grande terremoto produttivo degli anni Ottanta e Novanta, lo sgretolarsi delle roccaforti industriali operaie, la trasmigrazione di campo delle forze politiche e sindacali che avevano sostenuto ed organizzato la classe operaia e i salariati nel Novecento, il progressivo venir meno della solidarietà di classe e di ceto, assieme ad un vasto lavorio ideologico e culturale dei mass media, hanno via via tolto al lavoro dipendente e subordinato il senso di sé e del proprio ruolo e le speranze di poter vincere nel conflitto sociale con il padronato privato e “pubblico”. Anzi, in Italia a partire dal Nord e dall’affermarsi della Lega come partito al tempo padronale e popolare, molti salariati hanno interiorizzato la convinzione che tale conflitto finisse per essere esiziale per la già scassata barca Italia: se mettete in difficoltà i conduttori della “barca” – è stata la litania dei corifei del capitalismo nazionale – essa affonderà, dovendosi già destreggiare a fatica nei marosi dei conflitti economici mondiali e non potendosi permettere una “ciurma” insubordinata e non collaborativa; ma mentre i padroni della barca si metteranno comunque in salvo con i loro potenti motoscafi e si dirigeranno verso altri lidi, voi, forze-lavoro subordinate e dipendenti, non avrete scampo e affogherete.
Dunque, resi incapaci di dirigere il conflitto sociale verso chi stava sopra di loro, molti settori popolari hanno riversato la propria impotenza contro chi stava sotto, i migranti, il cui dumping sociale  – e cioè la vendita della propria forza-lavoro a prezzi stracciati, da “concorrenza sleale” -, pur se reso obbligato dalle condizioni di privazione dei diritti e dalla negazione dell’essere lavoratori/trici alla pari con gli stanziali, agevolava il padronato nella messa all’angolo delle residue forze dei salariati indigeni. Ed è forse questo il segnale più rilevante della pesante sconfitta negli ultimi anni degli antagonisti del Capitale, dei difensori delle forze-lavoro dipendenti e salariate, dei sostenitori dell’egualitarismo, della solidarietà sociale, della prevalenza dei Beni comuni sull’accumularsi dei beni privati: non aver saputo impedire l’esplodere di questa suicida lotta interna ai settori popolari timorosi di scendere ulteriormente nella scala sociale.

NOTE

1  Con questa espressione si indica di solito il decennio tra il 1968 e il 1977, quando in Italia agirono in permanenza movimenti, forze ed organizzazioni anticapitalistiche di orientamento prevalentemente comunista, spesso con influenza di massa, che caratterizzarono il decennio con dimensioni e continuità conflittuale senza precedenti nel Novecento.

2   F.Engels,  AntiDuhring  in Marx-Engels, Opere complete vol.XXV, Editori Riuniti, Roma, 1974, pp.267-8

3   Di certo Bordiga, il cui peso teorico e politico in materia, almeno in Italia, è stato però modesto.

4   Le mobilitazioni a Seattle nel dicembre 1999 sono comunemente considerate l’evento di inizio del Movimento contro la Globalizzazione liberista, definito sbrigativamente dalla stampa italiana movimento no global – a partire dal marzo 2001 in occasione delle manifestazioni a Napoli contro uno dei summit internazionali – e in genere denominato altermondialista. A Porto Alegre, capitale dello Stato di Rio Grande do Sul, in Brasile, si è tenuto nel gennaio 2001 il primo Forum Sociale Mondiale: ed altri due se ne tennero prima che traslocasse nel 2004 a Mumbay in India, tornando poi nel 2005 ancora a Porto Alegre e poi spostandosi nuovamente, via via fino all’ultimo tenutosi nel febbraio 2011 a Dakar nel Senegal.

5  V.I. Lenin, “La grande iniziativa”, in Opere, XXIX, Editori Riuniti, Roma 1967, p.384

6   L’IRI (Istituto di Ricostruzione Industriale) fu fondato nel 1933 dal governo fascista per evitare il fallimento delle principali banche italiane e il crollo dell’economia già dissestata dalla crisi mondiale del 1929. Primo presidente dell’IRI fu Alberto Beneduce, che proveniva come Mussolini dalle fila socialiste e che nel 1921 era stato ministro del governo del leader socialista Ivanoe Bonomi. Economista, anticlericale e massone, non aveva battezzato i cinque figli e aveva chiamato le tre femmine Idea Socialista, Vittoria Proletaria e Italia Libera. L’IRI nel dopoguerra allargò il campo di intervento, modernizzando e rilanciando l’economia negli anni’50 e ’60. Nell’80 comprendeva circa 1000 società ed era la più grande struttura industriale fuori dagli Usa. Nel ’92 venne trasformata in società per azioni e ancora nel ’93 era tra le prime 7 imprese del mondo come fatturato. L’IRI è stato sciolto nel 2002.

7   K.Marx  Il Capitale,  Libro terzo, Editori Riuniti, Roma, 1965, pp.320 e 45.

8   Subito dopo la morte di Stalin, avvenuta il 5 marzo 1953, si sviluppò una aspra lotta politica tra le varie tendenze del Partito comunista sovietico che si cristallizzarono in correnti: lotta che poi portò alla vittoria e alla direzione del Partito Nikita Krusciov che, a partire dal Congresso del PCUS del 1956, iniziò la cosiddetta destalinizzazione del partito e dello Stato, pur mantenendo invariate le caratteristiche del PCUS di Partito Unico, dotato di monopolio assoluto nella gestione politica e istituzionale dello Stato sovietico.

9  Il termine “moderato” continua ad essere usato a sproposito nei confronti del social-liberismo, cioè di quella corrente maggioritaria tra gli ex-comunisti – organizzata politicamente, dopo lo scioglimento del PCI, prima nel PDS, poi nei DS e oggi nel PD; e sindacalmente nella Cgil – che tenta da anni di gestire il liberismo con più pervicacia e maggior convinzione della stessa destra, ma con modalità tutt’altro che moderate: come pure nessuna moderazione ha mai messo nel costante tentativo, oramai ultra-quarantennale, di cancellare la sinistra anticapitalista o non compatibile con la gestione dell’esistente.

10  Intendo l’area di estrazione prevalentemente comunista che ha mantenuto una autonomia organizzativa dagli eredi dello scioglimento del PCI, ma nel contempo ha continuato a girare intorno a questi, per lo più alleandosi ad essi per conservare una presenza nelle istituzioni.

11  Bettino Craxi è stato il primo socialista italiano presidente del Consiglio, in due successivi governi dall’agosto 1983 all’aprile 1987. Si può dire che Craxi e il suo gruppo dirigente siano riusciti nell’impresa di fare da battistrada sia al berlusconismo sia al social-liberismo, lanciando una politica spregiudicata di sottomissione piena dei salariati e dei settori popolari al capitale nazionale, costruendo la piena concertazione e il collaborazionismo tra la Triplice sindacale Cgil, Cisl e Uil e Confindustria e governi e inaugurando la politica-spettacolo e il decisionismo autoritario nel proprio partito e nella gestione governativa, mettendo in discussione punti fermi della Costituzione italiana e della struttura istituzionale, cancellando la “scala mobile” (aggiornamento automatico dei salari all’inflazione) e mettendo all’angolo l’allora Partito Comunista che, fino alla travolgente ascesa di Craxi a segretario del Partito Socialista, era stato sempre largamente egemone nel dopoguerra all’interno della sinistra italiana. Travolto negli anni di Tangentopoli da numerose accuse di corruzione e condannato anche per finanziamento illecito al proprio partito, decise di fuggire in Tunisia pur di non finire in carcere. E’ morto ad Hammamet nel gennaio del 2000.

12   Se da una parte si considera, oltre ai due governi Prodi, anche il sostegno del centrosinistra ai governi Dini, Ciampi e Amato, e dall’altra i tre governi Berlusconi, i tempi di permanenza al governo dei due schieramenti sono stati pressoché equivalenti.

13  Gino Giugni, docente universitario di Diritto del lavoro, a capo nel 1969 del gruppo che preparò lo Statuto dei Lavoratori, deputato, senatore presidente della Commissione Lavoro dal 1987 al 1989, scrisse la legge 146 del 1990, antisciopero e anti-Cobas. Per la verità nelle sue note biografiche tale bruttura quasi non compare, forse perché in antitesi a quanto aveva sempre sostenuto a partire dalla tesi di laurea in Giurisprudenza, dedicata alla centralità e alla difesa di tale diritto. Si può dire che la nascita dei Cobas lo fece “svoltare” a 180 gradi. Venne premiato dal governo Ciampi tre anni dopo con il Ministero del Lavoro e dal PSI, allo sfacelo dopo la fuga in Tunisia di Craxi, con la carica di presidente del partito. E’ morto nell’ottobre del 2009 a 82 anni.

14 Acronimo offensivo riguardante Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna e Italia, anche se i più “benevoli” nei confronti del nostro Paese sovente lo escludevano, scrivendo PIGS senza la doppia I.