Il 10 novembre una fiumana ininterrotta di “indivisibili” ha percorso per oltre quattro ore le “storiche” vie delle manifestazioni nazionali a Roma ed ha riempito, come non accadeva da molti anni, Piazza S. Giovanni, per protestare contro le politiche governative, contro il decreto “in-sicurezza” di Salvini e contro l’odio razzista nei confronti dei più deboli e indifesi che vengono in Italia e in Europa per cercare un po’ di pace e di giustizia sociale. Ci aspettavamo circa 20 mila persone, ne sono venute cinque volte tante. Molto ha contato, nel successo oltre le più rosee aspettative, l’alleanza includente e rispettosa di tutte le componenti, che si è realizzata tra forze sociali, sindacali e politiche e che ha favorito l’enorme adesione (oltre 500 associazioni) di strutture che accolgono i migranti, di decine di comunità di immigrati, di movimenti per l’abitare e occupanti di case, di centri sociali, Cobas, partiti, reti nazionali e comitati locali. Ma, al di là delle forze organizzatrici, circa i due terzi dei partecipanti sono venuti in forma autonoma rispetto alle strutture organizzate. Si è, cioè, manifestata in piazza l’avanguardia di una larga opposizione, seppur non maggioritaria nel paese al momento, contro il decreto Salvini e contro le politiche reazionarie, razziste e ultra-autoritarie del governo Lega-5Stelle, fomentatrici di odio verso i più deboli. Nel corteo e nei comizi finali gli “indivisibili” hanno chiesto con forza il ritiro del decreto, l’accoglienza e la regolarizzazione per tutti/e ed hanno espresso la massima solidarietà a Mimmo Lucano – che in piazza è stato accolto dall’affetto di tutti/e – e alla splendida esperienza di Riace; ed hanno detto NO all’esclusione sociale, ai respingimenti, alle espulsioni, agli sgomberi, al disegno di legge Pillon, alla violenza sulle donne, all’omofobia. Il successo della manifestazione non è stato intaccato dagli estenuanti controlli dei pullman in arrivo e dalle intollerabili schedature di massa effettuate ai danni dei manifestanti in arrivo a Roma. E la forza della enorme presenza è riuscita a superare anche l’incredibile e senza precedenti (abbiamo visto in azione l’effetto dell’occupazione delle TV da parte della Lega e dei 5Stelle) oscuramento massmediatico, in clamoroso contrasto con la massima centralità data invece alla manifestazione dei SI TAV di Torino, malgrado la presenza colà fosse circa un quinto di quella romana.

Ora, ciò che speriamo, e per cui lavoreremo, è che quello del 10 novembre, seppur enorme, sia stato solo il primo passo di una mobilitazione, fondata sulla più larga alleanza possibile contro le politiche di questo governo reazionario, che, oltre a portare a nuove iniziative nei giorni in cui il decreto Salvini giungerà in discussione alla Camera, misurerà le proprie intenzioni in una nuova Assemblea nazionale, il 16 dicembre a Roma, dove le forze promotrici dell’alleanza che si è espressa il 10 novembre, valuterà quali siano i prossimi passi da compiere insieme per allargare ulteriormente la partecipazione e rendere sempre più incisiva e diffusa l’opposizione a questo governo distruttivo e massimamente pericoloso. Bisognerà vedere, però, se la gravità delle attuali politiche governative e l’unità sui contenuti fin qui realizzata sarà sufficiente a superare quella sindrome dell’egemonismo e/o della “reductio ad unum” che ha sempre causato negli ultimi anni la disgregazione delle coalizioni create a partire dalle forze della sinistra antiliberista, antagonista e conflittuale. Guardando al recente passato, balza agli occhi come, pur in presenza di una vasta gamma di movimenti, di reti, di organizzazioni, di sindacati di base e di comitati, collettivi e associazioni che in questi anni si sono battuti contro il liberismo e il razzismo, per giustizia sociale ed economica, per i Beni comuni, la difesa ambientale, il lavoro stabile e adeguatamente retribuito, non si è mai riusciti a stabilizzare tra questi movimenti, reti ed organizzazioni, alleanze e coalizioni durature, in grado di sintetizzare e collegare obiettivi e tematiche e di costituire un’alternativa credibile generale alle politiche dominanti. Mentre in altri paesi europei – dove pure la conflittualità tra le forze alternative e la loro dispersione e frantumazione era stata elevata per decenni (si pensi alla Grecia, alla Spagna, al Portogallo, alla stessa Francia) –  si è alfine riusciti a dare vita a stabili coalizioni che hanno occupato un importante spazio politico e istituzionale, in Italia nessuna coalizione o alleanza politico-sociale-sindacale antiliberista e di base è riuscita a durare, ad ottenere risultati rilevanti e ad avere un ruolo significativo anche nelle istituzioni nazionali e locali.

Come COBAS, in questi 31 anni di vita, abbiamo tentato a più riprese di avviare e rafforzare coalizioni e alleanze del genere, sia a livello sindacale sia su un piano politico generale. Ma i tentativi non hanno dato frutti significativi, se non nel periodo fecondo – e certamente il punto più alto, in questo secolo, di costruzione e di azione di un grande movimento di massa variegato e polivalente – del movimento altermondialista “no global” (2000-2004): un movimento e una coalizione sciaguratamente distrutti però, dal suicida coinvolgimento di varie forze ad esso interne nel percorso che portò al secondo governo Prodi. Negli anni successivi abbiamo fatto altri tentativi di costruzione di alleanze: sul piano politico tra il 2006 e il 2008 contro il secondo governo Prodi e quasi contemporaneamente (2007-2008) sul  terreno sindacale con il Patto di Base tra le principali organizzazioni, al tempo, del cosiddetto sindacalismo di base, e poi nuovamente sul piano politico, a partire dal Decennale (2011) dell’anti-G8 di Genova, verso una coalizione altrettanto ampia di quella del movimento no-global, e sempre con buoni risultati all’inizio: ma poi le smodate velleità egemoniche di alcuni e la brutale concorrenza “gruppettara”, in una sorta di “guerra tra minoranze del ghetto”, hanno bruciato anche tali tentativi. Dopodiché, abbiamo esperito un ulteriore tentativo nel 2014 con la coalizione dello “sciopero sociale”, alleanza tra i COBAS e una vasta area di centri sociali e di strutture del precariato giovanile: tentativo però anch’esso di breve durata per le conflittualità interne. Nella stragrande maggioranza dei casi tali alleanze non sono crollate su divergenze strategiche o di programma insormontabili, ma quasi sempre su questioni di metodo o, per essere più precisi, sulle “regole del gioco”, sulle modalità di funzionamento delle alleanze stesse. Quelle che seguono sono a nostro avviso le “lezioni” che continuano a trovare difficoltà ad essere applicate e sperimentate in Italia.

1) Nel conflitto con un capitalismo dalle mille facce è impensabile ritenere possibile una “reductio ad unum” della opposizione. Dovrebbe essere palese che non ci sono più (anzi, a ben vedere non ci sono mai state nei fatti, al di là delle ideologie) classi o ceti-guida che possano imporre  subordinazione a tutti gli altri settori sociali “senza potere e senza proprietà”; o partiti piglia-tutto nei cui confronti la schiera dei possibili alleati rappresenti, come nel modello del PCI togliattiano, “utili idioti” da usare finchè sottoscrivono la volontà del partito-padrone. 2) La costituzione di una alleanza e di una coalizione, che usi magari una sigla riconoscibile, non implica affatto la sparizione delle sigle, delle bandiere, delle identità delle forze componenti la coalizione. Anzi: la massima valorizzazione delle rispettive piattaforme e identità è il modo migliore per arricchire la coalizione. Chi dice: “togliete tutte le bandiere” (e le identità), in genere vuole imporre una nuova bandiera (la propria) e una identità dominante (sempre la propria). 3) Costituire una coalizione non significa imporre unanimità permanente e assoluta compattezza decisionale. Si può stare insieme su tante cose importanti ma trovarsi in disaccordo su alcune scelte o decisioni. In questi casi, la soluzione migliore è quella di non fare uso della sigla comune ma di firmare le iniziative con le componenti della coalizione che sono d’accordo, senza per questo rompere con gli altri e senza dover essere sottoposti a boicottaggio da chi non condivide l’iniziativa. Ci si separa in quell’occasione, non ci si pesta i piedi ma poi si riparte insieme. 4) Si può affermare all’interno di un’alleanza una leadership di “volti” più popolari di altri, ma va escluso che una coalizione possa davvero esprimersi con una sola faccia e una sola voce in permanenza. Sta alle leadership in formazione capire la necessità di esprimersi in alcune occasioni con una sola voce e in altre con una pluralità che non sia però cacofonica. 5) In un alleanza, non è pensabile votare con maggioranze del 51% ma si può e si deve decidere solo con larghissimo consenso: in caso contrario, ci si muove con autonomia ma non scontrandosi puerilmente, per poi ricercare l’unità passato il contrasto. Ferma restando la necessità di un accordo di massima su punti programmatici di fase, l’esperienza ci insegna che il non rispetto di queste (o analoghe) “regole del gioco”, impedisce anche a coalizioni, movimenti ed alleanze, pur piuttosto coese nei contenuti, di esprimere le proprie potenzialità, allargarsi e durare efficacemente nel conflitto contro i poteri esistenti.

 Piero Bernocchi

19 novembre 2018