Durante l’esplosione del conflitto israelo-palestinese delle settimane scorse, sia a ridosso del lancio di razzi da parte di Hamas su Israele sia durante i ben più micidiali e spietati bombardamenti israeliani su Gaza, e successivamente, quando al momento della tregua Hamas ha festeggiato una sua presunta vittoria (non nei confronti di Israele ovviamente, ma dell’ANP, l’Autorità nazionale palestinese di Fatah, sua dichiarata rivale) malgrado le centinaia di vittime palestinesi, mi sono interrogato, per l’ennesima volta in questi anni, sulla sensatezza della posizione che la sinistra antagonista e antimperialista italiana (e internazionale) ha tradizionalmente sostenuto sul conflitto tra Israele e i palestinesi, oscillante tra le velleità di distruzione di Israele e la fragile teoria dei “due popoli e due Stati”. Arrivando, dopo tanti anni di iniziative a fianco del popolo palestinese, a conclusioni non ortodosse e anzi decisamente controcorrente, che avanzo senza fanfare o granitiche convinzioni ma con un ragionevole margine di dubbio, a cui gli auspicabili feedback di chi vorrà interloquire daranno, spero, un valido contributo in un senso o nel’altro.

Tre storie

Per introdurre il cuore delle mie attuali riflessioni e prime conclusioni in materia, farò ricorso a tre storie, apparentemente non collegate, due delle quali credo poco note a gran parte di chi leggerà, mentre la terza si sta svolgendo in questi giorni e invece è certamente in buona parte conosciuta dai più. La prima storia l’ho ricavata da un recente libro di Matti Friedman – un giornalista piuttosto famoso che scrive per molti giornali a diffusione internazionale, a partire dal New York Times – dal titolo Spie di nessun paese. Le vite segrete alle origini di Israele: testo che non mi avrebbe mai interessato se non svelasse le identità di personaggi significativi nell’affermazione dello Stato israeliano e con esse illuminasse un aspetto assai rilevante delle caratteristiche etniche di una parte corposa del popolo di Israele. Scrive Friedman: «La gente tende a pensare che la linea di divisione tra “arabo” ed “ebreo” sia molto definita e immagina gli ebrei in Israele come degli europei bianchi. Ma metà degli ebrei che abitano in Israele ha radici nel mondo islamico, in paesi come il Marocco, lo Yemen e la Siria. Le prime spie di Israele – che sono le protagoniste del mio libro – erano ebrei che potevano passare tranquillamente per arabi, perché le loro identità arabe non erano affatto fittizie. Erano nativi del mondo arabo e questa è una grande parte di quel che Israele è oggi, una cosa che in Occidente moltissimi faticano a capire. Nel 2021 è molto più importante conoscere e comprendere questo Israele, mediorientale, più che l’Israele delle origini, del socialismo e dei kibbutzim». E sul nuovo governo, e in particolare sulla partecipazione del partito islamico di Abbas ad esso, Friedman dice: «La nuova coalizione che governa Israele potrebbe non durare a lungo, ma riflette in modo interessante e positivo la società israeliana, dalla destra alla sinistra, includendo per la prima volta un partito arabo, il Movimento Islamico che è guidato da uno tra i politici più intelligenti del paese, Mansour Abbas».

La seconda storia l’ha raccontata il 10 giugno scorso Yossi Cohen, fino a dieci giorni prima capo del Mossad, a Ilana Dayan (la sintesi dell’intervista si può leggere su Repubblica.it dell’11 giugno), giornalista della TV israeliana Channel 12: intervista che ha sorpreso tanti nel mondo, perché il Mossad è ben noto per la sua efficienza e spietatezza ma non certo per loquacità; e pare evidente che Cohen abbia ricevuto dalle massime autorità israeliane l’autorizzazione al colloquio. L’intervista parte con il racconto, fatto da Dayan, di due eclatanti azioni del Mossad a Natanz, la sede delle centrifughe del programma nucleare iraniano: la giornalista descrive come vennero fatte esplodere le centrifughe nel luglio 2020 e nell’aprile 2021, introducendo gli esplosivi la prima volta in una scrivania e la seconda carica, definita come molto più potente e “terminale” per le centrifughe, nella piattaforma di cemento usata come base delle centrifughe stesse: il tutto malgrado il luogo fosse tra i più sorvegliati e meglio difesi dell’intero Iran. Cohen conferma, lasciando capire di avere a disposizione foto dettagliate del sito nucleare, prima e dopo le esplosioni, e aggiunge: «Ci rivolgiamo con chiarezza all’Iran, non vi lasceremo avere la bomba atomica. Che cosa non capite?». E in stretto collegamento con il tema del programma nucleare iraniano, Cohen parla anche di Mohsen Fakhrizadeh, lo scienziato iraniano principale responsabile del programma stesso, ammazzato nel novembre scorso per strada, assumendosene di fatto, seppur non ufficialmente, la responsabilità. Perché dopo aver ammesso che lo scienziato era seguito da anni, passo passo, dal Mossad, afferma senza mezzi termini: «Se un uomo ha una capacità che mette in pericolo i cittadini di Israele deve smettere di esistere». Anche se poi Cohen ci tiene ad aggiungere che, a chi può “mettere in pericolo i cittadini di Israele”, il Mossad dà sempre una possibilità di non finire ucciso e che in particolare agli scienziati che lavorano sull’armamento “pesante” iraniano, viene offerta un’alternativa con protezione e rifugio all’estero, sottolineando che parecchi scienziati iraniani hanno approfittato dell’offerta, abbandonando il loro paese sotto protezione israeliana. Infine, tra alcune cose minori, Cohen parla di quello che appare il successo più spettacolare (almeno tra quelli resi noti) della sua gestione del Mossad: e cioè il trafugamento dei documenti del programma nucleare iraniano, avvenuto nel 2018. Che, prendendo per vero il racconto, sembra modellato sui più spettacolari film della serie Mission impossible, visto che il materiale sarebbe stato, dal governo iraniano, frammentato e nascosto addirittura in 32 casseforti blindate diverse, disseminate in un palazzo di Teheran superprotetto dalle milizie iraniane. Cohen dichiara che ad agire fu un commando di 20 persone, nessuna delle quali israeliana e assai probabilmente iraniane, allenato per ben due anni in una località segreta dove erano state ricostruite le stanze dove si trovavano le casseforti a Teheran. Cohen aggiunge che egli stesso seguì, in diretta video, l’esecuzione del furto, in un’operazione durata sette ore, con le foto dei documenti inviate direttamente alla sua sede, via via che le casseforti venivano aperte. Dopo che, a bordo di un camion attrezzato alla bisogna, il commando finì di trasmettere le immagini dei documenti, e mentre altri camion “innocui” circolavano per Teheran per confondere le acque, il gruppo venne portato fuori dal paese.

La terza storia, infine, è certamente la più nota anche tra chi non segua con metodica attenzione e interesse le vicende del conflitto israelo-palestinese. Riguarda, infatti, l’avventura elettorale – di cui molto si è parlato durante e dopo l’insediamento del nuovo governo israeliano – del partito Ra’am (Lista Araba Unita), nato nel 1996 dal Movimento Islamico, dopo la scissione tra il partito Settentrionale e quello Meridionale, il secondo dei quali, guidato da Mansour Abbas, era per l’ingresso nel parlamento israeliano, al contrario del primo. Con i suoi 4 deputati eletti alla Knesset, Abbas è diventato una componente essenziale e insostituibile nel nuovo governo di Naftali Bennett e di Yair Lapid che, seppur con una maggioranza risicatissima e con una coalizione senza precedenti di ben otto partiti, ha allontanato dal governo Netanyahu. Conosco ben poco le vicende di Abbas e di Ra’am e già il fatto che le sue origini siano legate al movimento dei Fratelli Mussulmani me li fa presupporre lontani mille miglia dalle mie impostazioni politiche, culturali e ideologiche; né scommetterei sulle loro reali intenzioni all’interno di questo nuovo governo. Quello che trovo comunque interessante è la tesi di fondo che ha guidato Ra’am nel suo percorso di istituzionalizzazione. Circa due milioni dei cittadini/e di Israele (un quinto) sono arabi palestinesi, di cui gran parte, credo, non sopporta più questa doppia sottomissione ad Israele e ad Hamas, e sembrerebbe desideroso di avere una rappresentanza istituzionale che permetta di vivere in Israele da cittadini/e con gli stessi doveri e diritti di coloro che sono di religione ebraica. E Abbas mi pare abbia ben compreso questo potente e diffuso desiderio e si candida a rappresentarlo con ben più forze degli attuali 4 deputati. Senza tirare razzi su Israele, e manco un sasso, Abbas ha contribuito a scalzare dal potere Netanyahu. Ma soprattutto ha offerto il proprio appoggio al nuovo governo in nome di alcune richieste che, se assecondate, darebbero ai palestinesi vantaggi che decenni di guerriglia o di guerra a bassa intensità non hanno realizzato. E precisamente: a) significativi investimenti nelle aree abitate in maggioranza da arabi per lo sviluppo economico, l’edilizia, i servizi sociali; b) il riconoscimento e la protezione dei villaggi beduini nel Negev (o Neghev, in arabo “terra del Sud”), la zona desertica che occupa circa il 60% del territorio israeliano, in cui vive il 10% della popolazione del paese; c) l’annullamento della legge Kaminitz del 2018 che smantella le costruzioni “abusive” edificate nelle zone abitate dagli arabi; d) la presidenza della commissione Interni del Parlamento. Va tenuto conto che Abbas rappresenta in particolare quelle comunità arabe che in certe zone del paese da anni cercano di convivere con le comunità ebraiche più democratiche, lontane dall’ebraismo ultra-ortodosso e sionista, che però sono una parte significativa della popolazione e con le quali, anche durante gli scontri e le violenze delle settimane scorse e i bombardamenti su Gaza, si è conservato un clima di relativa collaborazione, con prese di posizioni comuni che condannavano sia le violenze israeliane sia quelle di Hamas.  Va ricordato che Mansour Abbas ha fatto una campagna elettorale parlando di compromessi, nonostante il suo partito sia una costola dei Fratelli Mussulmani; e gli è stata data fiducia per le sue promesse, perché ha parlato ad un elettorato che vuole sentirsi parte dello Stato di Israele, ma alla pari e senza discriminazioni di sorta. Ha intercettato questo spirito, come anni fa aveva capito che avrebbe dovuto spostare il suo partito più su questioni economiche che su quelle religiose. Adesso Abbas punta a far parte della politica istituzionale israeliana con un ruolo influente e vantaggioso per gli arabi palestinesi, vuole essere l’ago della bilancia di questo e degli eventuali futuri governi. Che faccia in seguito mascalzonate o meno, il dato rilevante mi pare sia la domanda a cui si prepara a rispondere: quella degli arabi palestinesi che non ne possono più dei conflitti armati, degli “opposti estremismi” della destra sionista e di Hamas (che si alimentano vantaggiosamente a vicenda), e che vogliono pieno accesso alla cittadinanza israeliana, pari diritti e pari doveri con la popolazione di fede ebraica, in uno Stato multireligioso (o ancor meglio, direi io, laico) e multietnico.

 Due popoli in un unico Stato democratico, multietnico e laico?

 Quale sia il filo che collega queste tre storie è presto detto. La prima storia serve a ricordare come sia ingannevole l’immagine, molto diffusa in Italia e in Europa, che in Israele – come ha scritto Friedman – «la linea di divisione tra “arabo” ed “ebreo” sia molto definita, che gli ebrei in Israele siano europei bianchi. Metà degli ebrei che abitano in Israele ha radici nel mondo islamico…ebrei che possono passare tranquillamente per arabi… nativi del mondo arabo e questa è una grande parte di quel che Israele è oggi». In altri termini, non c’è una separazione profonda tra i due mondi, non sono etnie o culture davvero contrapposte e inconciliabili; e anche dal punto di vista religioso e linguistico c’è una frequentazione assai più diffusa di quanto si pensi da noi: molti israeliani/e di fede ebraica parlano l’arabo e provengono da paesi dove l’islamismo è la religione dominante. Insomma, la contrapposizione che si è creata negli anni è tutta politica ed è stata fomentata, seppur con diverse responsabilità – quella dei governi israeliani, soprattutto di quelli di estrema destra degli ultimi anni e della gestione Netanyahu, è la principale –, da quelli che ho definito “opposti estremismi”. Come tale, può essere progressivamente eliminata, o almeno fortemente contenuta, da politiche del tutto diverse, anzi opposte, e riducendo drasticamente il ruolo e l’influenza delle ali estreme dei due schieramenti. La seconda storia serve a ricordarci la forza, la penetrazione e l’onnipresenza dell’apparato bellico e militare israeliano, che rende del tutto fantascientifico l’obiettivo primario sbandierato in questi decenni dai principali regimi reazionari islamici in Medio Oriente e dalle forze dell’islamismo radicale palestinese a tali paesi legati (e da essi abbondantemente finanziati): e cioè la distruzione di Israele. In realtà le forze statuali o politico-militari che predicano tale distruzione, a partire dall’Iran fino ad Hamas, sanno perfettamente che solo di propaganda si tratta, utile per accrescere il proprio consenso e la propria influenza tra le comunità palestinesi, oltre che per ingigantire tra gli israeliani il senso di minaccia mortale esterna, che a sua volta potenzia l’estremismo nazionalista e razzista di tanta parte dell’apparato politico israeliano, in un gioco delle parti che, pur sempre più manifesto, tuttavia continua, come abbiamo rivisto anche in queste ultime settimane, in qualche modo a funzionare.

La terza storia, infine, indica una possibile via d’uscita che, attenzione!, non va identificata tout court nel partito di Abbas, che se ne vorrebbe intestare le potenzialità e la guida, e verso cui è giusto mantenere il massimo di scetticismo, e anche un’aperta diffidenza. Diciamo che il partito Ra’am e il suo percorso istituzionale vanno trattati come il dito del famoso apologo che indica la luna: e quest’ultima va osservata, non già il dito, per capire se simboleggia una prospettiva praticabile e comunque preferibile alla catena di pesanti sconfitte, lutti e frustrazioni per i palestinesi di questi decenni. Quanto la strategia dello scontro militare con Israele, sia nella variante della vagheggiata sua distruzione sia in quella moderata del consolidamento e allargamento di uno Stato palestinese davvero autonomo e autosufficiente all’interno del territorio israeliano, siano destinate a ripetuti fallimenti, lo ha dimostrato – e per la maturazione di questi miei giudizi e convincimenti, che espongo alla prova di tutte le possibili critiche, è stato il passaggio decisivo – l’ultimo azzardo di Hamas e la selvaggia e volutamente sproporzionata rappresaglia del governo e dell’esercito israeliani, che ancora una volta sono stati pagati con tanto sangue palestinese.  Gli sfratti di Sheikh Jarrat e l’aggressione ai palestinesi sulla Spianata delle Moschee avevano suscitano una ampia e vigorosa protesta di massa, pacifica e assai più efficace e foriera di consenso dell’uso di armi, missili e bombe. Ma Hamas ha frustrato questa rivolta generosa e disarmata e l’ha utilizzata ancora una volta per mettere all’angolo i rivali dell’ANP, per colpire il residuo potere dell’ANP in Cisgiordania e riaffermare la propria egemonia sul popolo palestinese. Ma tale egemonia è costata centinaia di morti e distruzioni ulteriori ai palestinesi della striscia di Gaza, certo perpetrate per mano israeliana, ma cinicamente messe in conto dai leader di Hamas che ben sapevano quale sarebbe stata la massiccia e barbara reazione militare del governo israeliano: e a riprova di tale cinismo, basti vedere i già citati festeggiamenti di Hamas dopo la tregua, spacciata come una vittoria palestinese.

Cosa possono aspettarsi i palestinesi da due organizzazioni, Hamas e l’ANP – finanziate abbondantemente i primi da regimi reazionari che usano i palestinesi come deterrente eterno contro Israele e i secondi dall’Occidente che ne ha alimentato a dismisura la corruzione – che simulano una “guerra di liberazione” senza alcuna speranza, che però serve loro per alimentare la propria autoconservazione come ceti politico-militari? Come possono sperare che Gaza e la Cisgiordania diventino sul serio uno Stato palestinese libero, indipendente e florido quando soprattutto la striscia di Gaza è una sorta di “carcere a cielo aperto”, con carcerieri doppi, israeliani e islamici, che oggettivamente si alimentano reciprocamente, spingendo gli “opposti estremismi” sempre più su posizioni guerrafondaie, razziste e senza alcuna speranza di pacificazione, democratizzazione e solidarietà reciproca tra etnie, culture, lingue e religioni? Non è venuto il momento che qualcuno faccia in Palestina qualcosa di simile a quanto Mandela fece in Sudafrica, abbandonando la guerriglia e cercando l’accesso al potere istituzionale per via pacifica? Certo, il contesto è diverso, in Sudafrica i neri erano la maggioranza e i bianchi dell’apartheid isolati a livello mondiale, cosa che non vale oggi per Israele. Ma, in una situazione pacificata, la crescita delle comunità palestinesi e arabe potrebbe essere più veloce di quella delle comunità ebraiche, riequilibrando i rispettivi pesi: e in ogni caso anche ora stiamo pur sempre parlando di almeno due milioni di abitanti che potrebbero incontrare tutta quella parte della popolazione di religione ebraica che non condivide le politiche clerico-separatiste e razziste dei Netanyahu e degli ultraortodossi di estrema destra, che rifiuta i bombardamenti ma anche le annessioni tentate in Cisgiordania e l’invasione dei coloni ebrei nelle zone arabe, e in generale le politiche di discriminazione e razziste nei confronti dei palestinesi. Ma che, nel contempo, non riuscirà mai a divenire maggioranza, e neanche ad alzare la voce più di tanto, fino a che la propaganda di Hamas, della Jihad islamica e di altre forze islamiste estreme, oltre che degli Stati reazionari che sostengono queste forze, punterà sulla distruzione, per quanto velleitaria, di Israele e alzerà il tiro dell’attacco armato che, pur con un potere distruttivo decisamente inferiore a quello israeliano, tuttavia rende agevole il ricorso, da parte dei governi israeliani, a tale minaccia per tacitare ogni dissenso interno.

È una strada praticabile quella di avvicinare i settori migliori delle due parti, quelle, per ora minoranze, che vorrebbero un futuro pacifico e solidale, in uno Stato unico, ma multietnico e multi religioso o ancor meglio apertamente laico, ovviamente democratico e non intessuto dalla mescolanza tra religione e politica? È un interrogativo ben complesso, su cui non mi azzardo a dare risposte facili e unilaterali: ma quel che oramai mi pare indiscutibile è che, percorrendo le strade fin qui battute, non si sia fatto il benché minimo passo avanti verso una tale prospettiva, verso una vera pacificazione e una vita migliore per tutti gli abitanti di questo martoriato territorio.

 Piero Bernocchi