Conti analoghi vanno fatti con la matrice ideologica del comunismo ottocentesco e novecentesco. E con Marx e Engels, non solo con i loro cattivi epigoni

Bernocchi prende di petto direttamente il Marx (ed Engels) politico, distinguendolo dal Marx analista del capitalismo. Tanto materialista, preciso e profondo il secondo, tanto idealista, contraddittorio e dannoso il Marx della dittatura del proletariato, della fine della lotta di classe e dei conflitti sociali, della statalizzazione completa. Soprattutto nel secondo libro, Bernocchi dimostra, testi e citazioni amplissimi alla mano, la profonda influenza di queste previsioni politiche erronee su tutta la storia della socialdemocrazia, prima, e del bolscevismo poi, e di quanto “leninismo”, per dirla con un paradosso, ci fosse in Marx ed Engels. E all’uopo utilizza anche il conflitto tra comunisti e anarchici nella prima Internazionale e le previsioni di Bakunin sull’elitarismo e l’autoritarismo insito nel marxismo politico.

Il benicomunismo: una società dei Beni comuni, le alleanze sociali, il rifiuto dell’egemonia e della “reductio ad unum”

La scelta del termine “benicomunismo” non è casuale: ed è singolare che, criticato da molti il neologismo per la sua presunta “bruttezza”, esso si sia diffuso assai negli ultimi anni anche nella stampa mainstream, senza peraltro alcun riconoscimento per Bernocchi, che per primo lo ha coniato, così come per i due libri, che sono stati valutati assai positivamente da tutti quelli che li hanno discussi e soppesati, ma sono stati ignorati anche dalla stampa vicina ai movimenti antiliberisti. Il termine intende recuperare l’anelito trasformativo insito nel termine “comunismo” (anche nelle versioni precedenti a quello “scientifico” marxiano) mixandolo con la centralità dei Beni comuni – in una interpretazione originale rispetto alla vulgata corrente – così come sta maturando nel pensiero collettivo. Peraltro, per non creare equivoci sul senso da lui dato al termine, in “Oltre il capitalismo”, a differenza che nel volume precedente, Bernocchi ha sentito la necessità di sottoporre ad una critica serrata, puntuale ed assai documentata, altre teorie italiche “benicomuniste”, che in realtà sono decisamente distanti da quanto da lui elaborato (Negri-Hardt, Mattei, Rodotà ed altri).
Per Bernocchi i Beni comuni sono un’entità storica, non immutabile e fanno parte di quei beni che una società considera indispensabili per tutti/e e non privatizzabili o da destinare al profitto, privato o di Stato. Ma qui ed ora essi non riguardano solo l’istruzione, la sanità, l’energia, l’ambiente, l’acqua e la terra ma anche la finanza pubblica, cioè la gestione e l’utilizzo dei soldi che lo Stato preleva ai cittadini/e, e le industrie strategiche. Questi beni vanno sottratti ai privati ma socializzati e non semplicemente statalizzati, visto che la vorace borghesia di Stato – così chiama Bernocchi quell’insieme di ceti politici e amministrativi che gestiscono le strutture pubbliche – può utilizzarli per fini privati anche senza possederli individualmente. Su quanto sia complessa tale socializzazione, l’Autore tratta a fondo nei capitoli centrali sia di “Benicomunismo” e ancor più dettagliatamente e approfonditamente in “Oltre i capitalismo”. E ci torneremo tra poco.
Altrettanto fondamentale è la teoria di Bernocchi sulle alleanza sociali per la gestione del benicomunismo. In luogo della ideologia del Partito che gestisce l’esistente e garantisce le alleanze, interpretando apparentemente gli interessi collettivi ma in genere, in realtà, quelli di casta/classe propri, l’Autore ritiene che esse vadano realizzate nell’incontro tra i vari strati sociali interessati al cambiamento, che devono potersi organizzare autonomamente e senza delegare ad altri i propri interessi. Oltre ad una analisi dell’attuale frantumazione del classico lavoro operaio e dipendente, salariato in fabbrica o nei servizi e nel pubblico impiego, davvero innovativa in questo contesto è l’analisi del lavoro autonomo e della piccola imprenditoria che Bernocchi si rifiuta di chiamare spregiativamente “piccola borghesia” – come nella tradizione teorica e politica marxista e comunista, peraltro elaborata quasi sempre da “piccoli borghesi”, e sul tema c’è in particolare un’asperrima critica di Bernocchi al Gramsci dell’Ordine Nuovo – , definizione ritenuta fuorviante, generica ed inutile. La scissione tra lavoro dipendente e piccolo lavoro autonomo è considerata da Bernocchi uno dei più grossi ostacoli alla trasformazione, prodotta scientemente sia dal potere politico ed economico sia dei vari sindacati di Stato nel dopoguerra, in Italia e altrove. Le coalizioni e alleanze paritarie, senza “reductio ad unum” politiche o sociali, senza egemonismi, sono un elemento fondante della teoria benicomunista bernocchiana, il quale ritiene negativa la “competizione” di primazia tra conflitti, ritenendo il conflitto capitale-lavoro rilevante come quello tra capitale e ambiente, o quello di genere o quello tra imperialismi e popoli in cerca di autonomia e indipendenza.